Odisseo e Calipso: testo, parafrasi e significato del Libro V dell’Odissea

Testo, significato e personaggi del Libro V dell'Odissea incentrato sull’episodio di Odisseo e Calipso. Quest'ultima tiene l'eroe prigioniero sull'isola di Ogigia ma Ermes invita Calipso ad aiutare Odisseo a riprendere il suo viaggio.
Odisseo e Calipso: testo, parafrasi e significato del Libro V dell’Odissea
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1Odisseo e Calipso: testo

Calipso e Ulisse
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Lei, la ninfa sovrana, in cerca del grande Odisseo
andava, dopo che udì il messaggio di Zeus.  

Sul promontorio, seduto, lo scorse: mai gli occhi
erano asciutti di lacrime, ma consumava la vita soave
sospirando il ritorno, perché non gli piaceva la ninfa.
certo la notte dormiva sempre, per forza,
nella cupa spelonca, nolente, vicino a lei che voleva.
Ma il giorno, seduto sopra le rocce e la riva,
con lacrime gemiti e pene il cuore straziandosi,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.
Accanto gli stette e gli parlò, la dea luminosa:
«Infelice, non starmi più a piangere qui, non sciuparti
la vita: ormai di cuore ti lascio partire.
suvvia, grossi tronchi col bronzo tagliando, connettili
in zattera larga; poi saldo castello disponivi,
alto, che possa portarti sul mare nebbioso.  

Intanto io pane, acqua, vin rosso
porterò in abbondanza, che tengan lontano la fame,
e vesti ti vestirò, ti manderò dietro il vento,
perché illeso tu arrivi alla terra dei padri,
se i numi vogliono, quelli che il cielo vasto possiedono  

e hanno più forza di me per comandare e volere».
Così diceva, rabbrividì il costante Odisseo luminoso  

e rispondendole disse parole fugaci:
«Altro tu macchini, o dea, con questo, e non il ritorno,  

che vuoi su una zattera farmi passare abisso immenso di mare,
spaventoso, invincibile: neppure navi di perfetto equilibrio
lo passano, anche se sono allietate dal vento di Zeus.  

No, sulla zattera non salirò, a costo d’oppormiti,
se non hai cuore, o dea, di farmi il gran giuramento,
che contro di me nessun nuovo male prepari».

Parlò così, sorrise Calipso, la dea luminosa,
lo carezzò con la mano e disse parola, diceva:
«Ah brigante che sei, e non sciocco davvero;
senti un po’ che discorso hai pensato di fare!

Sappia dunque la terra e il cielo luminoso di sopra,
e l’onda di Stige, che scorre in profondo – è questo il più grande
giuramento, tremendo per i numi beati –
che contro di te nessun nuovo male preparo;
anzi consiglio e provvedo quel che a me stessa
provvederei, se uguale bisogno m’urgesse,
perché ho mente giusta, non c’è nel mio petto
un cuore di ferro, ma compassionevole».

Detto così, lo precedeva la dea luminosa,
rapidamente: lui dietro i passi della dea camminava.
Giunsero alla cupa spelonca l’uomo e la ninfa,
E lui sedette sul trono da cui s’era alzato
Ermete, e la ninfa gli serviva del cibo,
Mangiare e bere come i mortali si cibano.
Poi sedette anche lei in faccia al divino Odisseo,
E a lei ambrosia le ancelle servivano e nettare.
Così sui cibi pronti e serviti le mani gettarono.
Poi quando si furon goduti cibo e bevanda,
fra loro prendeva a dire Calipso, la dea luminosa;
«Laerzίade divino, accorto Odisseo
dunque alla casa, alla terra dei padri
subito adesso andrai? Ebbene, che tu sia felice!
Ma se sapessi nell’animo tuo quante pene
t’è destino subire, prima di giungere in patria,
qui rimanendo con me, la casa mia abiteresti
e immortale saresti, benché tanto bramoso
di rivedere la sposa, che sempre invochi ogni giorno.
Eppure, certo, di lei mi vanto migliore
quanto a corpo e figura, perché non può essere
che le mortali d’aspetto e bellezza con le immortali gareggino!»
E rispondendole disse l’accorto Odisseo:
«O dea sovrana, non adirarti con me per questo: so anch’io,
e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope
per aspetto e grandezza non val niente a vederla:
è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza.
Ma anche così desidero e invoco ogni giorno
di tornarmene a casa, vedere il ritorno.
Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare,
sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle pene.
Molto ho sofferto, ho corso molti pericoli
fra l’onde e in guerra: e dopo quelli venga anche questo!»

2Odisseo e Calipso: parafrasi

Ulisse sull'Isola di Ogigia
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La ninfa sovrana Calipso andava in cerca di Odisseo, non appena ebbe udito il messaggio di Zeus. Lo vide sul promontorio che piangeva sospirando di continuo il ritorno, perché non gli piaceva la ninfa. La notte, certamente, dormiva con lei nella grotta ma controvoglia, mentre lei lo desiderava. Ma il giorno, seduto sopra le rocce vicino alla riva, straziandosi il cuore con singhiozzi e dolori, guardava al mare mai stanco, piangendo. Gli si avvicinò Calipso e gli parlò: «Infelice, non stare sempre qui a piangere, non sciuparti la vita: ormai di cuore ti lascio partire. Coraggio: taglia grossi tronchi con la scure, legali in una larga zattera: poi costruiscici sopra un saldo castello, alto, che possa portarti sul mare nebbioso. Intanto io provvederò alle scorte di acqua, pane e vino rosso, così che tu possa scacciare la fame. Ti darò anche vesti, ti manderò dietro il vento cosicché potrai arrivare sano e salvo alla terra dei padri, se lo vorranno gli dei, padroni del vasto cielo, più potenti di me nel comandare e nel volere». Queste furono le sue parole, Odisseo rabbrividì a sentirle, luminoso, e rispondendole disse parole fugaci: «Tu hai in mente altri piani, dea, con questo che mi dici, e non certo il mio ritorno. Vuoi che io passi l’immenso abisso del mare spaventoso e invincibile sopra una zattera quando neanche navi ben costruite ci riescono, sebbene favorite dal vento di Zeus. No, sulla zattera non salirò, a costo d’oppormiti, se non hai intenzione, o dea, di prestarmi il gran giuramento, che contro di me nessun nuovo male prepari».
A queste parole, Calipso, la dea luminosa, sorrise e lo carezzò con la mano. Dopodiché rispose: «Ah ma sei proprio un brigante, e non sciocco davvero; senti un senti che discorso hai pensato di fare! Sappia dunque la terra e il cielo luminoso che la sovrasta, e l’onda del fiume Stige, che scorre negli inferi – sarebbe questo il più grande giuramento, tremendo per i numi beati – che contro di te non preparo alcun nuovo male; anzi cerco di provvedere in modo simile a ciò che provvederei se mi trovassi nella stessa situazione: perché ho mente giusta; non c’è nel mio petto un cuore di ferro, ma compassionevole». Detto così, lo precedeva la dea luminosa, a rapidi passi: lui la seguiva. Giunsero entrambi, uomo e dea, alla cupa spelonca, e lui si sedette sul trono da cui poco prima s’era alzato Ermete; la ninfa gli serviva del cibo, mangiare e bere come i mortali si cibano. Poi si sedette anche lei davanti al divino Odisseo, e a lei le ancelle servivano ambrosia e nettare. Così presero allegramente dei piatti serviti e quando godettero il cibo e le bevande fra loro prendeva a dire Calipso, la dea luminosa: «Laerzίade divino, accorto Odisseo dunque alla tua casa, alla terra dei padri andrai subito adesso? Ebbene, spero che tu sia felice! Ma se sapessi nell’animo tuo quanti dolori dovrai subire per destino prima di giungere in patria, sceglieresti certo di rimanere con me e abiteresti la mia casa e saresti immortale – nonostante tu sia tanto desideroso di rivedere la tua sposa che invochi ogni giorno. Eppure, certo, di lei mi vanto migliore
nel corpo e nell’aspetto, perché è impossibile che le donne mortali gareggino d’aspetto e bellezza con le immortali!» E rispondendole disse l’accorto Odisseo: «O dea sovrana, non essere in collera con me per questo: so anch’io, e molto bene, che la saggia Penelope a tuo confronto per aspetto e grandezza non val niente a vederla: è mortale, e tu sei immortale e non invecchierai mai. Ma anche a queste condizioni desidero e invoco ogni giorno di poter tornare a casa, vedere il ritorno.
Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare, sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle sofferenze. Ho sofferto molto, ho corso molti pericoli fra le onde del mare e la guerra: e dopo quelli, venga anche questo!».

3Odisseo e Calipso: trama del Libro V dell’Odissea

Calipso ed Hermes
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Ermes ha da poco fatto visita a Calipso: il concilio degli dei ha deciso – quasi si trattasse di un processo giudiziario – che Ulisse ha sofferto abbastanza e può adesso tornare in patria. Calipso deve sottostare all’ordine divino, sebbene lei sia innamorata di Ulisse e voglia tenerlo con sé per sempre nella sua isola, Ogigia, dove l’eroe ha già dimorato per sette anni, struggendosi dalla nostalgia.   

Calipso va alla ricerca di Ulisse: lo trova, come sempre, a fissare il mare ipnotizzato dai ricordi: soffre, piange, sogna il giorno del ritorno. Calipso gli dice di non soffrire oltre: è libero, può andare, lei non lo tratterrà, anzi lo aiuterà a costruire un mezzo – una zatteraper tornare a casa.   

Ulisse, prudente, dubita della gentile offerta e soprattutto del mutato parere della dea. Avrà in mente qualche piano perverso per costringerlo a restare? Ulisse chiede a Calipso un giuramento e Calipso giura sul cielo e sulla terra, e sul fiume Stige, il fiume degli inferi. È un giuramento sacro, ha la sua parola. A questo punto lo accompagna nella sua grotta per mangiare insieme un lauto banchetto e poi Ulisse si metterà all’opera per intraprendere la costruzione della zattera. 

Finito di mangiare Calipso vuole sapere perché Ulisse è così desideroso di tornare. Non gli basterebbe rimanere con lei, per sempre giovane, per sempre immortale, godendo della bellezza dell’isola e dell’amore di una splendida ninfa al confronto della quale Penelope doveva apparire se non brutta, almeno molto modesta? Ulisse risponde che sa bene il costo della sua rinuncia, ma vuole vedere il giorno del ritorno. Ama Penelope, desidera tornare da suo figlio, desidera ricongiungersi con i suoi affetti e dimorare di nuovo nella sua terra. Se dunque dovrà soffrire altri dolori, come la dea gli preannuncia, li soffrirà volentieri. È abituato, dice, a tali sventure. 

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4Analisi del brano su Odisseo e Calipso: il dialogo tra una dea e un mortale

Odisseo e Calipso in un dipinto di Hendrik van Balen
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Calipso è colei che nasconde – il suo nome deriva dal verbo greco kalypto – e infatti sottrae Ulisse al suo viaggio per sette lunghi anni, occultandolo nella sua meravigliosa isola, una sorta di limbo idilliaco, dove l’eroe vive in una disperata beatitudine: non rischia la vita, non soffre sciagure di guerra, anzi ha vino e cibo in abbondanza e gode dell’amore della bellissima ninfa. 

Ci sono tutte le condizioni per decidere di non tornare mai più a Itaca, ma Ulisse brama il ritorno più di ogni altra cosa. Incontriamo l’eroe in una posizione molto suggestiva: al margine dell’isola, nel suo “limine”. Desidera il viaggio e affrontare di nuovo il divenire dell’esistenza, simboleggiato dal mare, per poter riabbracciare i suoi cari

Al paragone di questo, neanche la vita immortale regge il confronto. «Ideologicamente» dice ancora Privitera, «è questo il vertice della storia di Odisseo» (Privitera, Il ritorno del guerriero, p. 101). Perché? Calipso offre la «suprema lusinga» all’eroe: la vita che tutti i mortali sognano, eterna e senza vecchiaia. C’è chi ha sostenuto che Ulisse sia in una sorte di regno dei morti e che Calipso sia una divinità infera, ma non è così. Rinunciare al regno dei morti per tornare tra i vivi non avrebbe alcun merito particolare: tutti lo faremmo. Ma rinunciare alla vita degli dei, per restare uomo è ben altra cosa. Ti propongo un’interessante riflessione: 

«La fine, la coscienza della nostra finitezza, incombe su di noi. L’obiettivo, secondo Heidegger, sarà assumere, incorporare e volere la propria mortalità, poiché è esattamente questo che ci permette di vivere. L’esistenza autentica è pervasa dall’angoscia dovuta alla consapevolezza della propria finitudine. In questo modo, trasformo gli infiniti possibili in una strada che solo io posso percorre, un destino solo mio. Concependomi come finito, io sono in grado di scegliere, sbagliare, amare, vivere, di rendere la vita il mio destino. Ma assumere la propria mortalità non significa rinunciare alla tensione verso l’infinito, ma semplicemente viverlo consapevoli del nostro essere». (Tommaso Paris) 

Potremmo chiederci che cosa avremmo fatto noi al posto dell’eroe greco. Il nulla osta alla partenza da parte di Calipso giunge d’improvviso: se l’eroe vuole, può andare. L’aggettivo “accorto, prudente” ben si addice a Ulisse, il quale teme che Calipso lo stia ingannando perché magari vuole perderlo per sempre, in un viaggio impossibile. Ulisse è sospettoso e non si fida. La costringe allora a giurare: il giuramento è vincolante

A questo punto i due amanti vanno a banchetto insieme, come due amanti che giacciono insieme un’ultima volta, come due ospiti ormai pronti a lasciarsi e a tornare alle loro rispettive vite: è un congedo lento il cui ultimo saluto, all’effettiva partenza dell’eroe, non avrà niente di romantico. 

Durante il banchetto, c’è tempo per una domanda quasi civettuola da parte di Calipso: Penelope è tanto più bella di lei? È impossibile, dice, perché le mortali non possono gareggiare con le dee. Dunque, perché non vuole restare da lei? È l’occasione per Ulisse di spiegare che cosa significhi per lui il ritorno. Il ritorno è il compimento del suo viaggio: è il destino umano che gli è stato dato in sorte, a cui lui può, ma non vuole sottrarsi: Ulisse rispetta il suo limite umano con serenità; tornare a Itaca è la gioia che attende da sempre. Non c’è piacere che possa sostituire la gioia più intima di ritrovare i propri affetti nel giorno del ritorno dopo un lungo viaggio. Calipso, dea immortale, forse non può capire davvero che cosa significhi tutto ciò: è qualcosa di estraneo alla sua sensibilità divina: lei inoltre abita una sede che è quasi al di fuori dello spazio e del tempo (molti critici la identificano come una specie di regno ultraterreno, se non infero). Ulisse conosce bene il mondo degli uomini: è un eroe capace di tutto, dall’artigianato, alla pastorizia, alla navigazione alla guerra: ha nostalgia di questa vita e sa che il ritorno è continuamente minacciato da ospitalità simili a quelle della dea, per quanto benevola; sa che il percorso è incerto e che gli incontri più pericolosi sono spesso quelli che ci sembrano più allettanti. 

Il brano ci permette inoltre di parlare di Ogigia, l’isola di Calipso, che sembra a tutti gli effetti un luogo come detto non solo remoto, ma all’apparenza oltremondano. Come intendeva Omero lo spazio e il tempo? Ulisse precisa, con prudenza, di dover attraversare «abisso immenso di mare, / spaventoso, invincibile: neppure navi di perfetto equilibrio / lo passano, anche se sono allietate dal vento di Zeus». Ulisse è un marinaio provetto: sa di cosa sta parlando, per questo teme l’inganno della dea. Cerchiamo di capire meglio: Omero dice che Ogigia si trova sia nell’estremo occidente, sia al centro del mare. Entrambe queste connotazioni non sono geografiche ma simboliche perché «l’occidente estremo era un luogo remoto e misterioso come l’ombelico del mare, che era per i Greci, abituati alla navigazione cabotiera, un luogo remoto e misterioso. Sul piano geografico i due luoghi non sono coerenti, sul piano simbolico lo sono». (G. A. Privitera, Il ritorno del guerriero, p. 101). 

Ulisse, eroe accorto e prudente, sceglie di ripartire affrontando nuovamente l’incertezza del viaggio e la certezza del dolore e della sofferenza, ma con tutto ciò anche la speranza di fare finalmente ritorno. Con la zattera farà nuovamente naufragio ed arriverà all’isola di Scheria, dove abitano i Feaci: nudo e provato dal naufragio, sarà accolto dalla bella fanciulla Nausicaa, figlia del re Alcinoo, che lo condurrà alla sua corte. Lì racconterà le storie dei suoi viaggi divenendo egli stesso un narratore dell’Odissea.  

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