Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello e La coscienza di Zeno di Italo Svevo: confronto

Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello e La coscienza di Zeno di Italo Svevo: somiglianze e differenze tra i due romanzi del Novecento

Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello e La coscienza di Zeno di Italo Svevo: confronto
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Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno: confronto

Il fu mattia pascal e la coscienza di zeno: confronto
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Si tratta di due romanzi antitradizionali sotto ogni aspetto: narrativo, linguistico, strutturale. Romanzi che costringono il lettore a guardare dentro il personaggio per cercare di capirne l’inconscio o il subconscio che lo spinge ad agire, a raccontarsi in modo assolutamente fuori da ogni schema.

In questi due romanzi, scritti in prima persona, l’io narrante assume tuttavia spesso il tono distaccato, tipico di un osservatore ironico e talvolta persino divertito esso stesso delle vicende che lo coinvolgono, suo malgrado. Sembra infatti che le circostanze giochino di proposito con i due protagonisti, ingarbugliando la loro vita in modo paradossale e sovvertendone completamente i propositi iniziali. “La produzione letteraria di Pirandello e Svevo forma un blocco abbastanza omogeneo all’interno della letteratura novecentesca… per il modo in cui hanno interpretato la crisi della borghesia e della cultura di fine Ottocento, approfondendo con largo anticipo una problematica esistenziale sviluppata poi nel corso del novecento. Pirandello e Svevo sono stati degli anticipatori… Tutti e due sono stati apprezzati prima all’estero e poi in Italia, proprio perché la loro opera si inserisce in una letteratura di respiro europeo”.

Il personaggio: Mattia Pascal

Mattia Pascal, creduto morto, tenta inutilmente di potersi ricreare un’identità diversa, mimetizzandosi in un’altra persona e facendosi chiamare Adriano Meis. Tuttavia, è la sola certificazione anagrafica a dare l’identità, quando manca questa, la persona non esiste socialmente, anche se respira, parla, si muove. E Mattia, alias Adriano, non ha nessun documento che possa farlo inserire fra gli altri, perché Adriano Meis non esiste e Mattia Pascal è ritenuto morto.

Allora l’uomo decide di abbandonare il sogno di potersi creare una vita desiderabile e si vede costretto a riprendersi la passata identità. Ma non può, non c’è più posto per i morti nel mondo dei vivi. E allora? Allora, se all’inizio del romanzo l’io narrante scrive:

Una delle poche cose, anzi la sola cosa ch’io sapessi di certo era questo: che mi chiamavo Mattia Pascal.

Alla fine della storia si trova ad essere soltanto il Fu Mattia Pascal.

Il personaggio: Zeno Cosini

E se Mattia Pascal è una creatura esistente ed inesistente insieme, Zeno Cosini è un personaggio assolutamente inattendibile, protagonista del romanzo sveviano dove “il racconto fa capo ad una voce narrante che appare per molti aspetti inattendibile, che instaura da subito quel clima di dubbi, di incertezze, di interrogativi sempre aperti che presiederà poi l’autobiografia di Zeno”. Individuo privo di volontà, sempre indeciso su cosa fare e su come comportarsi.

Così Eugenio Montale sulla rivista L’Esame del dicembre 1925 accenna alla trama de La Coscienza di Zeno, pur concludendo che riassumerla “è un’impresa disperata”. "Zeno Cosini, ricco abulico, alquanto nevrastenico e malato immaginario di moltissime malattie, giunto alla vecchiaia scrive la propria autobiografia per compiacere ai desideri di un dottore che lo cura con il modo psicanalitico”.

Attraverso flash che infrangono ogni concatenazione temporale Svevo narra la vita del suo protagonista: la morte del padre, la decisione mai rispettata di non fumare più, il matrimonio con Augusta, avvenuto solo perché le altre due belle sorelle della giovane lo avevano respinto, l’avventura extraconiugale con Carla, il discutibile amore per la cognata Ada, il suicidio del marito di lei fino all’improvviso raggiungimento della ricchezza, che guarisce Zeno dalle sue malattie immaginarie, si ricostruiscono in un monologo interiore dell’io scrivente che rievoca i vari ricordi senza tuttavia il benché minimo rimpianto. Manca una concatenazione di tempo, infatti il riaffacciarsi dei ricordi di Zeno, disordinati e diacronici, richiama la tecnica psicanalitica del flusso di coscienza che già la narrativa di Joyce, cui Svevo fu legato da un’amicizia piena d’ammirazione, tradusse nel monologo interiore. Nell’Ulisse, appoggiandosi alla teoria freudiana del subcosciente, Joyce la risolve appunto nel monologo interiore, che tanto colpì i critici del suo romanzo e tanto venne imitato in tutte le letterature. Così come Zeno scrivendo per sé stesso ricorda la sua vita, o meglio ricorda sé nella vita, senza una coordinata logica e cronologia che dia susseguenza ai fatti.

Mattia e Zeno sono due personaggi simbolo di quella mancanza di certezze, tipica dell’intellettuale e, più genericamente, dell’uomo novecentesco. Esponenti tipici dell’individuo dell’età del positivismo, i protagonisti di questi due romanzi riflettono assai bene la concezione del relativismo dei loro autori.

Il relativismo in Svevo e Pirandello

Per quanto concerne Svevo la relatività della conoscenza si articola nel soggettivismo esasperato dell’interpretazione della vita e della condizione sociale, interpretazione estremamente personale e assolutamente ipotetica. Svevo, infatti, ci offre un quadro della vita tutto suo, riferibile alla patologia clinica caratteriale, che lo scrittore, attraverso le esperienze dei suoi personaggi, allarga alla società in cui vive. La sua stessa affermazione che ogni individuo è un malato, un inetto, un organismo di intenzioni che però assai raramente si concretizzano in atti, è soggettiva.

Luigi Pirandello
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Per Pirandello il relativismo si incentra sulle ricorrenti dicotomie esistenziali alla base di ogni rapporto umano, per cui l’essere è apparire, il doppio costituisce l’alterità e nega la possibilità di una conoscenza reale. La maschera nasconde il volto dell’individuo, determinando “l’inganno dell’incomprensione reciproca” e nascondendo una primitiva autenticità che le convenzioni sociali vietano di manifestare. Le convenzioni sociali, infatti, portano l’individuo a reprimere la parte più spontanea del suo essere, perché manifestarla infrangerebbe i castelli sollevati dall’ipocrisia e lo svelamento della verità troppo spesso sovvertirebbe i canoni dettati dai compromessi che portano l’uomo ad estraniarsi da se stesso, non sapendosi più nemmeno riconoscere.

“Pirandello e Svevo […] adoperano la letteratura come moderna forma di conoscenza esistenziale. Pirandello interroga i pensieri e i sentimenti dell’uomo in tutta la loro provvisorietà, incertezza, ambiguità, descrivendo il contrasto […] tra l’apparenza e la realtà vera, tra ciò che noi crediamo di essere e ciò che noi siamo allo sguardo e alla considerazione superficiale, ma sempre determinate e crudele degli altri.

Svevo scopre le forze oscure e istintive della psiche umana là dove le reazioni dell’impulso urtano contro le istanze razionali, producendo quegli atteggiamenti inconfessati e complessi dell’esistenza che sono l’inettitudine, l’incapacità di vivere […] la malattia”.

Il male d'esistere

Dopo una delle solite scenate con mia suocera e mia moglie, che ora, oppresso e fiaccato com’ero dalla doppia e recente sciagura, mi cagionavano un disgusto intollerabile, non sapendo più resistere alla noja, anzi allo schifo di vivere in quel modo, miserabile, senza la minima possibilità, né speranza di miglioramento… senza alcun compenso, anche minimo, all’amarezza, allo squallore, all’orribile desolazione in cui ero piombato; per una risoluzione quasi improvvisa ero fuggito dal mio paese.

Alla base della vita dell’uomo pirandelliano e sveviano sta dunque il male d’esistere. Anche se i personaggi dei due autori vivono e si muovono in ambienti diversi, se appartengono a diverse culture, hanno fra loro un parallelismo psichico che li condiziona. Si tratta cioè di una sostanziale incapacità di adattarsi alla vita, la subiscono senza averla scelta, e forse per un’altrettanta sostanziale incapacità di saper scegliere. L’inetto sveviano e l’inetto pirandelliano oscillano tra lucidità e nevrosi, alienano dalla concretezza e ledono l’equilibrio morale, come malattie. Mattia tenta una fuga dalla convivenza odiosa con la moglie e la suocera, divenutagli insopportabile, specialmente dopo la morte di sua madre e delle sue bambine. Chissà? Forse la fuga potrebbe guarire il suo male di vivere.

Analisi lessicale

Se proviamo a fare un’analisi lessicale di questo brano s’impongono in tutta la loro evidenza aggettivi come oppresso, fiaccato, intollerabile, miserabile e sostantivi come sciagura, disgusto, noja, schifo, desolazione, legati sostanzialmente da due verbi essenziali per dar significato, resistere, usato però negativamente (non sapendo più resistere) e fuggire, “ero fuggito dal mio paese”. Bastano solo questi rapidissimi cenni lessicali per rilevare lo stato nevrotico, depressivo del protagonista, uno stato che affonda le sue radici in un profondo senso di angoscia, in una sofferenza reale.

Analizzando poi la famosa pagina della Coscienza di Zeno, in cui Zeno vorrebbe decidersi a liberarsi del fumo, troviamo elementi differenti:

Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto fu peggio. E lo seppi a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento mal di gola accompagnato da febbre […]. Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono per essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire dubito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette formatasi a vent’anni si muove tuttavia […]. Sul frontespizio di un vocabolario trovo questa registrazione fatta con bela scrittura e qualche ornato – Oggi 2 febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta – […] Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Purtroppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata sul libro adesso che son qui ad analizzarmi, son colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei diventato l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.

Parole chiave in queste righe sono l’aggettivo ultima legato ironicamente al sostantivo sigaretta che si sa benissimo non sarà mai l’ultima; va sottolineato l’avverbio forse che testimonia lo stato di incertezza ed anche un atteggiamento di autoscusa. Se infatti le cose vanno determinandosi in un certo modo non è poi tanto grave la colpa di chi dovrà subirle. Va poi notato il sostantivo dubbio che testimonia l’innata indecisione di Zeno, che finisce per non concludere, anche tentando varie iniziative. E riflettendo sull’uso del verbo analizzarmi percepiamo la condizione introspettiva di Zeno.

Con grande abilità psicologica Svevo puntella di tali termini lessicali il suo modo di raccontare, così che il linguaggio diventa espressione palese di un preciso carattere, senza dubbio molto particolare.

Più cerebrale e dunque meno sofferta, la sintomatologia che ci presenta Zeno, parlando della sua malattia, l’assuefazione dal fumo, o meglio della sua incapacità (o non volontà) di guarirne. Unita alla malattia del fumo è la sua incapacità di amare, specie negli anni della prima giovinezza, quando, come dirà al medico, non era capace di amare una sola donna, ma era attratto da molte, e di ognuna amava una sola parte. Così Zeno cerca si spiegare questa sua malattia:

Gli raccontai della mia miseria con le donne. Una non mi bastava e molte neppure. Le desideravo tutte! Per istrada la mia agitazione era enorme: come passavano le donne erano mie. Le squadravo con insolenza per il bisogno di sentirmi brutale. Nel mio pensiero le spogliavo, lasciando loro gli stivaletti, me le recavo nelle braccia e le lasciavo solo quando ero ben certo di conoscerle tutte.

E Zeno si autodiagnostica concludendo:

La mia eccitazione non è la buona [...] Proviene dal veleno che mi accende le vene.

L’imprevedibilità della psiche umana

Italo Svevo
Fonte: ansa

“In nessun capitolo del libro, come in quello intitolato Il Fumo, Zeno appare esplicito nel trattare la propria malattia, nell’esibirne i sintomi, nel dimostrare al riguardo una competenza che talora precorre e talora attinge ai fondamenti stessi della psicanalisi […] Diviso sempre fra opposte tensioni, perennemente insoddisfatto, impegnato in un continuo, estenuante patteggiamento con se stesso, Zeno si inquadra perfettamente nella categoria che gli psicanalisti definiscono dei “nevrotici ossessionali” i quali poi soffrono tutti i dubbi e gli scrupoli che li portano quasi sempre a vere e proprie inibizioni del pensiero e dell’azione”.

Per come pensa e come agisce l’individuo pirandelliano dalla doppia personalità non è poi così distante dall’indeciso personaggio sveviano. Il tema dell’imprevedibilità della psiche umana è infatti un motivo ricorrente in Luigi Pirandello, e Mattia Pascal anticipa nella vasta opera di Pirandello il tema dell’essere e del sembrare, della verità e della finzione che raggiungerà poi il capolavoro dell’immaginario nel dramma Enrico IV, dove Pirandello supera e quasi abolisce il confine fra ragione e follia. Del resto non va dimenticato che quando comparve a puntate sulla Nuova Antologia nel 1904 Il fu Mattia Pascal lo scrittore stava affrontando un momento assai difficile della sua vita.

Dopo il crollo finanziario, in cui andarono perdute quasi tutte le risorse economiche della famiglia, vide aggravarsi in sua moglie i sintomi di una malattia psichica che la porterà ad una irreversibile forma di squilibrio mentale. Di notte, assistendo sua moglie, Pirandello scrive su commissione della  Nuova AntologiaIl fu Mattia Pascal”, immedesimandosi quasi nella situazione grottesca, penosa, socialmente anormale del protagonista.

Tristezza ed egoismo

Proprio come Svevo si immedesima in Zeno Cosini per riflettere in chiave narrativa sulla sua filosofia di vita. La solitudine di Mattia Pascal si conclude nell’annullamento dell’io, l’egoismo di Zeno riesce a farlo sopravvivere, facendolo barricare dietro un cinismo non certo sofferto, ma ironico, pure se a tratti amaro.

Nelle pagine conclusive del romanzo di Pirandello, Mattia Pascal, dopo aver scoperto sua moglie risposata con un altro, e madre di una creaturina, passato un primo desiderio di rivalsa, rinuncia ad ogni diritto di marito, del resto senza grandi sacrifici dal momento che era fuggito proprio dal suo matrimonio. Tuttavia, una volta fuori da quella casa getta la maschera del sarcasmo per sentirsi calare addosso la sua solitudine:

Sceso giù in istrada mi trovai ancora una volta sperduto, pur qui nel mio stesso paesello natio: solo, senza casa, senza meta.

Quanto addolora più Mattia è il fatto che nessuno dei paesani lo riconosca, eppure la sua assenza è durata solo due anni.

Nessuno mi riconosceva, perché nessuno pensava più a me […] Nel disinganno profondo, provai un avvilimento, un dispetto, un’amarezza che non saprei ridire […] Ah! Che vuol dire morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito.

Si esiste dunque solo nel momento in cui noi ci accorgiamo di essere, esistiamo per noi stessi, per gli altri, invece, esistiamo solo in funzione del ruolo che noi svolgiamo per loro. Come Mattia, che esisteva per sua moglie in quanto ne era marito, ma quando ha cessato di svolgere quel ruolo non esiste più, e così accade per tutti.

Forse questa è una delle pagine pirandelliane che sembra precedere di più di trent’anni certi aspetti della filosofia sartriana, quando Sartre affermerà che la realtà dell’uomo si costituisce dal dispiegarsi di emozioni ed immaginazioni, dalla cui analisi l’individuo coglie l’assurdità della vita determinata solo dalla contingenza. Pirandello si fermerà ad avvertire solo un sentimento d’angoscia e di pietà per l’uomo. E pietà fraterna prova Mattia verso il cadavere di quello sconosciuto che vollero identificare in lui e sulla cui lapide è inciso il suo nome. A questa lapide Mattia porta persino dei fiori e così scrive, a conclusione della sua storia incredibile:

…ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda: Ma voi, insomma si può sapere chi siete? Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: Eh, caro mio… io sono il Fu Mattia Pascal.

A nessuno può sfuggire la tristezza nascosta oltre il velo di voluto sarcasmo.

L’egoismo riesce invece a far sopravvivere Zeno Cosini. È come se l’uomo si fermasse oltre la barriera del cinismo che lo rende ironico e distaccato osservatore dell’inguaribile male, presente nella storia.

La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale, non sopporta cure […] La vita attuale è inquinata alle radici […] Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute… ci sarà un’esplosione enorme che ciascuno udirà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

Ma se, come scrive Svevo, la terra “errerà nei cieli”, c’è da chiedersi: che ne sarà dell’uomo? Certamente non esisterà più. La morte allora è la sola guarigione per la malattia della vita. E se Pirandello precede per qualche intuizione Sartre, Svevo precede quanto scriverà Sigmund Freud nel 1929-30 nel Disagio della civiltà, sostenendo che il progresso dell’uomo, che si affida agli ordigni, coincide per molti aspetti con un regresso e l’uomo appare vittima degli ordigni da lui stesso inventati.

E forse Svevo ha predetto la condizione dell’uomo nel 2000.

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