Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto a confronto

Confronto tra Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto: opere, temi, personaggi. Differenze e somiglianze tra Ariosto e Boiardo

Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto a confronto
getty-images

Confronto tra Ariosto e Boiardo

Quali sono le differenze fra Ludovico Ariosto e Matteo Maria Boiardo?
Fonte: getty-images

Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto sono due giganti del poema epico rinascimentale. Due autori molto diversi fra loro, che hanno dato vita ad opere altrettanto diverse, ma che hanno anche molti punti in comune.

Proviamo a conoscere meglio entrambi partendo dal contesto storico-letterario in cui operano, e poi approfondendo meglio il loro lavoro.

Contesto: i centri di produzione e diffusione della cultura

La corte, nel Cinquecento, non costituisce solo il centro della vita politica, ma anche dell’attività culturale. essa viene considerata come una misura di civiltà, nella quale si elaborano valori e contenuti della letteratura e dell’arte. Qui il letterato appare legato organicamente alla corte, contribuendo a elaborare e migliorare le varie ideologie.

Nella letteratura romanza, il termine “cortese” sottolinea un sistema di rapporti ideali e trasfigurati, di cui lo scrittore si fa interprete nelle sue opere; il termine indica anche uno status sociale che riguarda il ruolo dell’intellettuale. Si rafforza in questo periodo il mecenatismo, ossia la protezione che i principi e i signori accordano ad artisti e scrittori, dei quali in seguito traggono lustro e splendore. Lo scrittore che rappresenta le ideologie ufficiali viene protetto e stipendiato dal principe, che gli assicura degli impieghi e delle rendite, affidandogli anche incarichi di rappresentanza diplomatica. L’intellettuale infatti può dare lustro e prestigio al potere, celebrando la figura del principe e rappresentandone le glorie dinastiche.

Posta la vertice della vita sociale italiana del Quattrocento e del Cinquecento, la corte svolge così un ruolo dominante per quanto riguarda l’elaborazione dell’ideologia ufficiale, in tutta la varietà dei suoi aspetti: dalle convinzioni politiche ai costumi mondani, dalle forme della conversazione alle scelte artistiche e letterarie.

Il poema cavalleresco del Quattrocento

Il poema cavalleresco nacque nel XI e XII secolo in Francia con le Chansons de Geste e con la materia di Bretagna. Queste forme prendevano il nome di cantari; durante il Medioevo essi restarono una forma di letteratura popolare perché venivano cantati nelle piazze ed avevano genesi e destinazione popolari. Nel corso del Medioevo erano venuti meno l’elemento religioso e quello epico, mentre prevalevano elementi fantastici; erano storie inventate che prendevano libero spunto dalle storie reali.

All'origine si trattava di un insieme di testi raggruppabili in tre famiglie: il ciclo bretone, quello carolingio e quello classico. Il ciclo bretone racconta le imprese di re Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e le vicende di Tristano e Isotta: è il ciclo di Bretagna, basato su antiche leggende celtiche. Il ciclo carolingio narra le avventure di Orlando nella guerra di Carlo Magno contro i Mori, e ha dunque un fondamento storico. Episodio centrale delle opere di questo secondo gruppo è l'eroica morte del paladino Orlando, capo della retroguardia dell'esercito di Carlo Magno nella gola di Roncisvalle, nei Pirenei (storicamente, il fatto avvenne nel 778). Il ciclo classico rielabora alcune leggende classiche sopravvissute in forma romanzata attraverso compilazioni greco-bizantine. Protagonisti ne sono personaggi come Enea e Alessandro Magno, e a essere raccontate sono vicende come la guerra di Troia, anche se non mancano narrazioni di impianto mitologico.

In Italia, la materia cavalleresca diede vita a una linea "bassa" e a una "alta". Da un lato si sviluppò la letteratura franco-veneta, che riprendeva soprattutto il ciclo carolingio assieme ai cantari, componimenti in volgare recitati da cantastorie. Dall'altro, e con ben maggiore consapevolezza letteraria, si sviluppò la linea che ha il suo capolavoro nell'Orlando furioso (1532) di Ludovico Ariosto. L'aveva preceduto il Morgante (1478) di Luigi Pulci, poema in ottave in cui la materia cavalleresca carolingia è un pretesto parodico, un comico rifacimento delle canzoni di gesta, funzionale all'esercizio di un linguaggio fortemente personale.

Ascolta su Spreaker.

Anche l'Orlando innamorato (1495, pubblicato postumo) di Matteo Maria Boiardo adotta una lingua composita, un emiliano illustre che include espressioni popolari. Il contenuto del poema, però, questa volta è serio: aggrovigliate avventure tradiscono un'evidente nostalgia per un mondo ormai tramontato, interpretato da energici eroi guerrieri.

Ariosto riprese l'argomento del suo poema là dove Boiardo, che aveva lasciato incompiuto il suo lavoro, si era interrotto. Alcuni elementi dell'Orlando furioso sono già presenti nell'Orlando innamorato, come la dimensione magica e fiabesca, la centralità del tema dell'amore, il gusto per avventure intricate.

Matteo Maria Boiardo

Matteo Maria Boiardo
Fonte: ansa

Matteo Maria Boiardo fu un nobile feudale appartenente agli estensi. Nacque nel 1441 a Ferrara e morì nella stessa città nel 1494. Boiardo ebbe una formazione umanistica e inizialmente lavorò alla traduzione volgare di classici latini e greci.

Il Canzoniere raccoglie le sue liriche i volgare ispirate dall’amore per Antonia Caprara. L’opera, composta da 180 testi, è organizzata in tre volumi: il primo tratta le gioie dell’amore corrisposto; il secondo le sofferenze per il tradimento e infine il terzo i rimpianti e il pentimento.

Dal 1476 il Boiardo cominciò a scrivere l’Orlando Innamorato. Nel 1483 furono pubblicati i primi due libri, composti da 40 canti, mentre il terzo, in 46 canti, rimase incompleto per via della sua morte. Il poema riprende la materia cavalleresca ed è destinato al diletto di una corte signorile. Il protagonista è il paladino di Carlo Magno, Orlando, caduto in preda dell’amore. Il Boiardo riunisce in questo modo i due cicli cavallereschi, quello Carolingio e quello Arturiano.

L'Orlando innamorato

Il primo intellettuale alla corte ferrarese che operò la fusione dei due filoni, ad un alto livello letterario, fu sicuramente Matteo Maria Boiardo, il cui famosissimo poema cavalleresco si intitolava Orlando innamorato proprio in onore della presenza nell’opera di due generi prima contrapposti, quello d’armi e quello di amori. Orlando, infatti, è il protagonista delle imprese guerresche alla corte di Carlo Magno, ma in quest’opera Boiardo vuole mettere in evidenza il carattere erotico e avventuroso delle vicende che concentrano l’attenzione sull’elemento romanzesco (cioè riguardante le avventure dei paladini) e su quello edonistico.

Il fine principale dell’autore, infatti, era quello di raccontare una bella storia al pubblico di cortigiani, come possiamo notare in primo luogo nell’incipit del proemio e dai frequenti richiami al suo pubblico. Un pubblico sappiamo circoscritto ai gentiluomini e alle dame di corte e forse più precisamente alla sola corte di Ferrara, come possiamo notare dal linguaggio usato nel poema, ricco di espressioni e idiomi tipici di quella area geografica, o al massimo comune alla sola area padana, come se Boiardo non si fosse minimamente preoccupato di un futuro successo oltre i confini della sua corte, ma anzi avesse scritto la sua storia esclusivamente per l’élite cortigiana ferrarese.

Lo testimonia il proemio: nelle prime ottave del libro I, infatti, in assenza di ogni invocazione sia a una guerra santa da combattere per la difesa e la salvezza della cristianità che un qualsiasi mecenate principesco committente dell’opera, non risalta altra volontà che quella edonistica di narrare per il piacere di chi ascolta.

L’Orlando Innamorato è composto di tre libri, dei quali il terzo non finito, e, fatta eccezione dei pochi passi iniziali sulla guerra fra pagani e cristiani, che fungono innanzitutto da necessaria contestualizzazione, il libro I è tutto costruito intorno alla storia di Orlando innamorato, come notiamo alla fine della terza ottava.

Notiamo l’assenza dell’invocazione al committente, in un’opera che, tutto sommato, contiene un motivo encomiastico, visto che celebra la casata degli Este, impersonata dal duca Ercole d’Este.

L’attività di Boiardo (come quella di Ariosto e Tasso) si colloca in una Ferrara che trascorre un particolare momento politico: all’epoca di Boiardo, Ferrara si stava lentamente espandendo e cercava una posizione di egemonia all’interno di quella miriade di staterelli che frazionavano l’Italia; infatti, in questo periodo stava affrontando una guerra contro la potente Repubblica Veneta, la Serenissima, e al duca avrebbe fatto molto comodo usare il poema cavalleresco boiardesco per una sua propaganda politica. È evidente, però, che l’autore sembra ripugnare il fatto che nella sua opera dovesse entrare violentemente la dimensione attuale e politica come voleva il suo signore.

Il poema riprende la materia cavalleresca ed è destinato ad una èlite cortigiana come lo stesso poeta dichiara nel proemio. La novità dell’Orlando sta nella caduta in preda all’amore del forte paladino Orlando, austero e saggio difensore della fede cristiana; stessa sorte tocca ad un eroe del circolo bretone. Il Boiardo porta quindi a compimento la fusione di due cicli cavallereschi, il carolingio e l’arturiano, poiché nel poema si intrecciano imprese e amori, a cui fa da sfondo il meraviglioso fiabesco (fattura bretone)

Boiardo ritiene che i valori del mondo cavalleresco, sembrati destinati a scomparire, si concilino bene con l’ambiente della corte ferrarese appassionata di prodezze e forza fisica ma anche avida di amori. Il poeta, profondo conoscitore della cultura umanistica, comprende che la cavalleria si è ormai svuotata della concezione medievale per fare spazio a quella rinascimentale, rivedendo tutti gli attributi del cavaliere, come la prodezza, in chiave umanistica. Il desiderio di acquisire questa virtù si manifesta come spiccato individualismo atto all’accrescimento della propria fama, perciò anche l’onore perde il suo significato medievale e diviene espressione umanistica della voglia di primeggiare.

Anche il motivo dell’amore è lontano da quella della corte: ora non è altro che la manifestazione di quel senso gioioso e attivo della vita che si rivela nella prodezza guerriera.

La trama del poema si costituisce attraverso un proliferare inesauribile di fatti, personaggi e situazioni.

La narrazione conserva tutta l’immediatezza del racconto fatto direttamente dinanzi ad un auditorio.

La lingua del Boiardo è lontana dalle rigide codificazioni classicistiche che saranno proprie della letteratura cinquecentesca. È una lingua ibrida, che ha l’effetto è di una grande freschezza e immediatezza. Lingua ibrida, imperfezioni  e trasandatezze che la fluente onda narrativa porta con sé sono la causa della scarsa fortuna avuta dal poema nell’epoca immediatamente successiva.

L’Ariosto recupera le tematiche ed i personaggi del poema del Boiardo ma vi è una diversificazione in come la stessa materia viene svolta ed esplicitata. All’adesione affettiva del Boiardo, Ariosto sostituisce il distacco di chi non si identifica più nei valori nei contenuti del messaggio cavalleresco, ma li trasferisce sul piano di una re-invenzione fantastica. Il Furioso poteva quindi apparire come la più alta incarnazione del mito umanistico-rinascimentale, in cui l’uomo realizza pienamente le proprie capacità, simboleggiando il trionfo della vita.

Sommariamente il testo può essere diviso in quattro sequenze: l’inizio con il destinatario e l’espediente del manoscritto; la descrizione della sontuosa corte reale, aperta a tutti; l’entrata in scena di Angelica; la reazione che provoca l’arrivo di questa sugli invitati, soprattutto sui paladini.

La novità che inserisce il Boiardo è quella di aver composto un’opera creando un miscuglio di elementi appartenenti al ciclo bretone ed a quello carolingio, per questo l’autore parla di cose “nove”.

Rispetto a quanto accadeva nel passato, il Boiardo ha voluto dare una grande importanza all’amore, facendolo addirittura diventare tema portante dell’opera: infatti, il fatto che Orlando si innamori è così innovativo e degno di nota che l’autore cita proprio questo inaspettato cambiamento agli spettatori, con i quali vi è un rapporto molto diretto che si può notare in alcuni dei versi iniziali.

Altra cosa degna di nota è l’introduzione dell’artificio del manoscritto: in questo modo si fa risalire l’origine dell’opera all’arcivescovo di Reims, Turpino, il quale avrebbe scritto questa storia e poi l’avrebbe nascosta con il pretesto che quelle cose sarebbero dispiaciute allo stesso Orlando.

La scena passa poi nella corte di Carlo Magno, nella quale sono presenti tutti i paladini provenienti da ogni parte del mondo e, per il fatto che quella è un’occasione speciale, vi sono addirittura i Saraceni. Dalla descrizione del banchetto e degli invitati possono essere ritrovati tutti i valori cavallereschi, ma allo stesso tempo vediamo l’entrata in scena di valori nuovi, più legati al mondo della ragione e dello studio, che tendono ad elevare l’uomo spiritualmente.

Finita questa descrizione è il momento di Angelica che entra nella sala fra quattro giganti e la bellezza che sprigiona viene subito paragonata a quella di una stella la cui luce riesce ad abbagliare ed a soverchiare le altre seppur belle dame.

Il ritorno all’ideale classico di bellezza è chiaro ed è ricorrente anche il fatto che ella, con un solo sguardo, riesca a fare innamorare anche i più duri di cuore. L’apparenza però a volte inganna, infatti non appena Angelica rivolge la parola ad Orlando riusciamo a capire il vero intento della ragazza: indebolire le forze cristiane per far sì che Gradasso abbia via libera per poter raggiungere il suo scopo. Naturalmente la visione di Angelica turba profondamente i paladini presenti i quali, attirati dalla proposta che gli viene fatta (otterranno Angelica se batteranno suo fratello Argalia), sono ancora più attratti da così immensa bellezza.

Tutti cedono alla tentazione, persino Orlando, il quale capisce che innamorarsi non è una cosa adatta ad un tipo come lui che deve invece spendere tutta la sua vita a combattere per Dio, per il re e per la patria. Tuttavia neanche il paladino francese riesce a resistere; l’unica persona che capisce il vero intento di Angelica è Malagigi; un mago cristiano che legge nel cuore della dama e vede quali sono le sue mire.

Il Boiardo ha inoltre pensato di rendere più attuale l’opera usando alcuni elementi provenienti dall’ambiente toscano ed altri che risalgono al mondo pagano.

Leggi anche:

Ludovico Ariosto

Ludovico Ariosto rappresenta la tipica figura dell’intellettuale cortigiano del Rinascimento: egli infatti operò per tutta la vita all’interno di una corte, ma nello stesso tempo nei confronti di essa ebbe sentimenti di rifiuto e di polemica. Il poeta proveniva da una nobile famiglia: il padre era funzionario dei duchi d’Este, e comandava la guarnigione militare; da Reggio Emilia, si trasferì a Ferrara, dove intraprese i primi studi studiando diritto sotto l’imposizione del padre. In seguito si dedicò allo studio letterario e umanistico. Sempre in questa città incontrò l’umanista Pietro Bembo, il quale lo indirizzò verso la poesia volgare. Nel frattempo iniziò anche a frequentare la corte del duca Ercole I, dove divenne un cortigiano stipendiato, e in seguito, dopo la morte del padre, divenne capitano della rocca di Canossa.

A causa dei rapporti tesi tra il nuovo duca, Alfonso I, e il papa Giulio II , Ariosto vestì la funzione di ambasciatore a Roma. Intanto a Firenze aveva stretto legami con una donna sposata, Alessandra Benucci Strozzi. Nel 1515 il marito di lei morì, ma Ariosto non poté mai convivere con lei a causa del voto di celibato; la sposò comunque in segreto anni più tardi.

Nel 1516 pubblicò la prima versione dell’Orlando Furioso, dedicata al cardinale Ippolito. Nel 1517 si rifiutò di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria e passò al servizio del duca Alfonso, che, tra il 1522 e il 1525 gli affidò il governo della provincia della Garfagnana, territorio turbolento e infestato dai banditi, dove riuscì a dare prova delle sue capacità politiche.

Le Satire

Un'immagine che ritrae un episodio delle Satire di Ariosto
Fonte: getty-images

Tra il 1517 e il 1527 Ariosto scrive sette satire in forma di lettere indirizzate a parenti e amici, rifacendosi al modello della satira latina in altre parole delle opere in versi.

Le sette satire di Ariosto partono da episodi personali e hanno diverse tematiche; gli episodi narrati sono esemplificati dalle favole, lo stile è discorsivo, apparentemente colloquiale, quindi uno stile di conversazione quotidiana ottenuto con espressioni e termini tratti dal parlato e con uso di metafore che si rifanno alla vita comune, ma non mancano però termini più rari o del linguaggio letterario. Il tutto è elaborato in modo tale che lo stile diventa il risultato di un lungo lavoro di limatura.

Dalla satira scaturisce il desiderio di Ariosto di condurre una vita serena, tranquilla, modesta, ma indipendente da qualsiasi tipo di servitù. Questo pensiero contrastava con la condizione dell’intellettuale dell’Italia rinascimentale perché vivendo nella corte non poteva essere né completamente libero né completamente rinchiuso. Da ciò nasce la posizione di critica nei confronti della corte che scaturisce da tutte le satire di Ariosto.

Le satire di Ariosto hanno struttura dialogica perché il poeta dialoga, al loro interno, sia con se stesso sia con i destinatari delle satire che sono suoi parenti o amici.  A volte può capitare che l’interlocutore sia immaginario; questa caratteristica, insieme al racconto mitologico, è usata nell’Orlando furioso che è la sua opera più grande.

Le tematiche delle satire di Ariosto sono varie:

  • La condizione dell’intellettuale cortigiano;
  • L’ambizione di riuscire a rendersi indipendente e condurre così una vita tranquilla dedicata agli studi e alla famiglia;
  • I compiti di natura pratica che gli venivano imposti dal principe che gli impedivano di dedicarsi agli studi;
  • La follia degli uomini (che sarà poi al centro dell’Orlando furioso) che riguardava il rincorrere da parte dell’uomo la fama, il successo, la gloria e l’avidità di potere. Rispetto a questa follia l’Ariosto è ironico e polemico e sottolinea che, nella vita di corte, tutti questi valori fittizi si sostituiscono ai veri valori e impediscono di raggiungere la serenità interiore.

Le satire sono importanti per capire l’Orlando furioso perché è sempre presente un atteggiamento di riflessione e di conoscenza del reale. Nell’Orlando furioso quest’aspetto è meno appariscente perché è velato dal fiabesco, dal meraviglioso che è descritto attraverso le avventure cavalleresche.

L'Orlando Furioso

Ferrara cresce e nel ’500 raggiunge l’apice del suo splendore, occupando una posizione preminente sia in campo politico che in campo artistico e letterario, anche se l’atteggiamento dell’intellettuale verso la corte non cambia. Essendo nel pieno del Rinascimento, quasi tutte le opere, in questo caso i poemi cavallereschi, si coprono di dediche e di invocazioni a committenti per intenti encomiastici, cioè questa procedura diventa una norma a cui difficilmente si poteva scampare e l’unico modo che rimaneva allo scrittore di ribellarsi a questo obbligo era solo proseguire una ribellione nascosta tra i propri versi: analizzando il poema di Ariosto, l’Orlando Furioso, possiamo notare la sua posizione all’interno della corte estense.

Seguendo l’esempio di Boiardo, Ludovico Ariosto fonde insieme il genere epico e il genere cavalleresco, ottenendo un poema che si configura come una "gionta" (aggiunta e continuazione) dell’Orlando innamorato, visto che ne riprende la trama e la arricchisce con nuove vicende. Nell’opera ariostesca, però, la fusione dei due generi è molto più significativa che in Boiardo anche perché Ariosto si presenta come un’eccellente regista delle vicende: a causa del carattere avventuroso dell’opera, sono presenti tantissime storie parallele, anticipazioni, trapassi e riprese che avrebbero potuto rendere la materia confusionaria e caotica, se pensiamo al fatto che l’autore inserisce anche l’elemento epico.

Ariosto, però, è un ottimo regista, e riesce a riportare l’armonia all’interno di questa materia altrimenti così vasta e varia, soprattutto grazie ad una tecnica già usata in altri autori, ma qui ripresa in maniera così efficace e sorprendente da renderla fondamentale per il proseguimento del racconto: l’entrelacement.

Le varie avventure coinvolgono ogni personaggio e gli permettono di intraprendere una quête, che però risulterà alla fine sempre vana, perché la Sorte compenserà il cavaliere sempre con un oggetto sostitutivo a quello della sua ricerca: chi non si vorrà sottomettere ai capricci della sorte si sclerotizzerà, come Orlando che vede il proprio equilibrio psichico frantumarsi quando si accorgerà che Angelica, la donna tanto amata, tanto desiderata e per cui ha affrontato tante battaglie ed avventure, è ormai di un altro, Medoro, un cavaliere pagano fino ad allora quasi sconosciuto agli occhi del lettore; e Orlando, infatti, impazzirà.

Nel poema c’è solo un personaggio che porterà a termine il proprio vagare e la sua avventura si concluderà con un lieto fine: Ruggero, il paladino che già in Boiardo simboleggiava la casata d’Este, visto che rappresentava il capostipite della famiglia regnante.

In Ariosto il tema encomiastico è ben presente e l’autore non si sottrae al suo obbligo, almeno formalmente, e al contrario di Boiardo non si dimentica di inserire fin dal I canto l’invocazione al proprio committente, il Cardinale Ippolito d’Este, come destinatario dell’opera.

In realtà, Ariosto cortigiano non lo è affatto: anzi, in molte sue opere, tra cui il Furioso, critica aspramente non solo i cortigiani, ma anche l’autorità, personificata dal Cardinale. Purtroppo però, Ariosto sapeva benissimo che a quel tempo la corte era l’unico centro propulsore di cultura laico, ed abbandonandola non avrebbe ricavato nessun vantaggio, anzi avrebbe perso la possibilità di continuare il suo studio e la sua attività letteraria; perciò tutte le sue decisioni saranno prese in funzione di questa consapevolezza.

Non ha nessuna scelta: rimane nella corte, anche se questo gli costa molti doveri, spesso politici, come il governatorato in Garfagnana, che comunque assolve in maniera eccellente.

L’unico modo di far fronte a questa realtà è accettarla, magari con quello sguardo ironico, che nelle sue opere provoca un effetto di straniamento.

Ludovico Ariosto
Fonte: ansa

Con questi presupposti è chiaro in che modo egli possa comportarsi riguardo al dovere di propaganda politica nel suo poema cavalleresco. La casata d’Este, in questo momento storico, ha forse più bisogno di questa propaganda nelle opere dei suoi intellettuali, ma nell’Orlando Furioso troviamo uno scrittore che vuole prendersi una rivincita personale per mezzo dei suoi versi, considerati tanto inutili dal suo signore: al contrario di Boiardo, Ariosto è quasi obbligato ad inserire il motivo encomiastico, ma, oltre all’ironia, si serve di un’altra arma per demitizzare gli Este, il romanzo.

Ariosto sembra trascurare l’elemento epico per favorire quello romanzesco e questo con un preciso obiettivo da parte dell’autore. Sappiamo come l’epica tende a celebrare una civiltà, e con questo intento ad Ariosto è affidata la celebrazione dello Stato ferrarese davanti ai suoi rivali politici, ma per chi sa leggere tra le righe, la presenza massiccia del filone d’amori vuole proprio neutralizzare l’effetto del filone d’armi: così come questo deve celebrare miticamente un popolo, l’altro smitizza i suoi valori e ne fa oggetto di ironia. In questo modo Ariosto formalmente sembra aver assolto il suo compito politico, ma in realtà ha ottenuto l’effetto contrario.

Ariosto riprende la materia cavalleresca e vi è la fusione tra la materia carolingia e quella arturiana: grande rilievo hanno sia il motivo amoroso sia quello fiabesco e meraviglioso, tipici della materia di Bretagna. Il poeta rende estreme le conseguenze di questa fusione rendendo Orlando addirittura pazzo d’amore. Alla materia romanza si aggiungono poi infinite conoscenze della letteratura classica con le quali forme riveste la materia cavalleresca, identificandosi a pieno nello stereotipo di poeta del pieno Rinascimento con una grande formazione umanistica.

Il poema è pensato come forma di intrattenimento indirizzato ad un pubblico di persone colte. Esso presenta ancora i caratteri della trasmissione orale, che in realtà sono solo convenzioni, allusioni ai modi della narrativa dei canterini di piazza. Il Furioso è un’opera pensata interamente per la diffusione attraverso la stampa. Ciò significa che il pubblico non era più relativo semplicemente ad una corte ma comprendeva il pubblico nazionale, formato dall’insieme delle persone colte di tutti i centri della penisola.

La prima edizione del poema, formata da 40 canti e scritta nel 1515-1516 è stata revisionata nel 1521, con una revisione di carattere linguistico poiché l’opera conteneva troppe strutture. Una seconda edizione è del 1521 ed è formata da 46 canti. Infine c’è una terza versione del 1532, corretta e revisionata secondo i canoni della lingua che ha prevalso, cioè quella definita da Pietro Bembo nel 1532.

Questa terza edizione contiene novità nei contenuti perché Ariosto ha introdotto molti avvenimenti della storia contemporanea.

La prima edizione usa una lingua cortigiana mentre la terza usa quella di Petrarca e Boccaccio. La terza edizione è stata pubblicata dal figlio dell’Ariosto con l’aggiunta di cinque canti composti dal padre nel 1518-1519.

La materia dell’Orlando furioso è la guerra tra Carlo Magno e i Saraceni (Mori d’Africa); la narrazione inizia con l’assedio di Parigi. Nel poema dell’Ariosto abbiamo tre filoni narrativi:

  • La guerra dei mori contro Carlo Magno;
  • L’amore di Orlando per Angelica e pazzia di Orlando (Angelica è in continua fuga ed è continuamente ricercata da Orlando che diventerà pazzo quando Angelica si sposerà con Medoro. Alla fine Orlando recupererà il senno grazie al cugino Astolfo che andrà a recuperarlo sulla Luna);
  • Storia di Ruggero e Bradamante: questo filone narrativo ha carattere encomiastico perché da questi due personaggi l’Ariosto farà discendere la casa d’Este. La storia di Ruggero e Bradamante si svolge affrontando continui contrasti perché Ruggero, essendo pagano, non poteva sposare Bradamante che era cristiana per questo alla fine Ruggero si convertirà al cristianesimo.

Leggi anche:

Un consiglio in più