Forse che sì, forse che no (1910)

Così inizia quello che Roncoroni definì emblematicamente l’ultimo romanzo» del Vate. Recensione (4 pagine formato doc)

Appunto di xxxr85
Forse che sì, forse che no (1910) Forse che sì, forse che no (1910) « - Forse - rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente.» Così inizia quello che Roncoroni definì emblematicamente — scegliendolo come titolo del suo intervento a un convegno dedicato al Forse — «l'ultimo romanzo» del Vate.
Fu infatti lo stesso d'Annunzio a definire il successivo La Leda senza cigno (1916) un semplice “racconto”. La donna a pronunciare quel “forse” è Isabella Inghirami, probabilmente nella realtà la contessa Giuseppina Mancini, come risulta dal taccuino del 14 agosto 1908: «Il vento agita il velo bianco di Giusi».
La stesura del romanzo era iniziata con qualche difficoltà già l'anno prima, ma il lavoro non pareva decollare. Quel “forse” sarà un leitmotiv e già ben descrive i continui ripensamenti di Isabella che, innamorata di Paolo Tarsis, prova continui rimorsi per quel suo sentimento: sarà questa indecisione a renderla ancor più affascinante e desiderabile agli occhi dell'amato. Il suo carattere è mosso dall'alternarsi di momenti di ritrosia ad attimi di lascivia furibonda; sente però sempre su di lei il senso di colpa, così profondo e persecutorio da generare nella sua mente stati allucinatori e paranoie. La sorella Vana, nella sua mente, da nome diventerà fantasma e voce. Vana è una visione ossessiva e continua, perché (è questa la causa dei mali di Isa) anche Vana è innamorata di Paolo, pur non essendo corrisposta. Vana, pagina dopo pagina, occuperà sempre più spazio nella mente della sorella, che sentirà sempre più prepotentemente, nella notte stellata come nella sua anima, i passi agitati della solitaria vergine suicida. Amore e gelosia le agiteranno. Suicidio e follia le separeranno. In quel maggio del 1907, fra il 24 e il 26, Gabriele d'Annunzio è nella terra dei Gonzaga, dove forse spera di trovare sollievo ai tormenti d'amore. «Domattina potrei partire con la stessa automobile per Mantova» scrive all'amante Giuseppina, contessa nata Giorgi e sposa a Lorenzo Mancini. Quell'autobiografico “forse” (recuperato dai suoi carteggi) simboleggia anche il modus operandi e l'arte di d'Annunzio; egli pesca eventi dai suoi taccuini e dalle sue lettere; trasfigura paesaggi e ambienti visti; condensa immagini appartenenti a esperienze diverse; sovrappone e ricompone innumerevoli situazioni e vicende amorose e personali della sua vita nell'arte. È nota fin dai tempi del suo primo romanzo (Il piacere, 1888-1889) l'abitudine scrittoria che lo spinge a inserire nelle opere, con molti rischi — ricordiamo nel caso del Forse la disputa quasi legale con gli Inghirami —, importanti frammenti della sua vita, come ad esempio quelli allora tratti dalle lettere a Barabara Leoni. Stupisce in d'Annunzio non tanto questo suo far arte della vita, quanto quel suo far dell'arte