Canto IV dell'Inferno: trama, analisi e parafrasi del canto che racconta del limbo

Trama, analisi e parafrasi del Canto IV dell'Inferno che racconta del limbo e dei numerosi personaggi che Dante incontra. Qui il poeta affronta un problema teologico.
Canto IV dell'Inferno: trama, analisi e parafrasi del canto che racconta del limbo
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1Inferno, introduzione al canto IV: il limbo

Canto IV Inferno. Dante incontra le anime dei poeti nel Limbo, quattro dei quali si fanno avanti, Omero, Orazio, Ovidio e Lucano
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Il quarto canto è sereno e malinconico al tempo stesso: è pervaso da un’atmosfera delicata e quasi (da sottolineare quasi) purgatoriale. Interrompe la visione drammatica dei primi tre canti e la successiva serie di canti che proseguono con ritmo e intensità tali che il lettore se ne sente soggiogato. Qui c’è il tempo per un racconto più disteso e per un omaggio a uno dei dubbi teologici più profondi di Dante: l’assenza del battesimo, è peccato? No: è solo una colpa, senza dolo, ma è comunque punita secondo la Chiesa. 

Dante obbedisce alla dottrina, ma almeno toglie il terrore della buia campagna solcata da sinistri bagliori e rintronata da pianti dolorosi e da grida blasfeme degli ignavi costretti a correre senza scopo e ci immerge in un’aura in cui sospirano di un desiderio inesaudibile donne, uomini e bambini non battezzati. Poco più avanti eccoci davanti agli spiriti sapienti, i megalopsychoi. Dove siamo? Siamo in un luogo dove si soffre per un’assenza, quella di Dio, qui sentita in modo ancora più struggente

«È il Limbo: condizione unica in rapporto non solo agli altri cerchi infernali, ma anche all'intero oltretomba dantesco. Dove, cioè, è negata la contemplazione di Dio, che è il Paradiso; dove è preclusa l'attesa della contemplazione di Dio, che è il Purgatorio; dove non c'è neppure il dolore con «martiri», che è l'Inferno vero e proprio; ma dove tuttavia, se non c’è la pena del senso, c'è la pena del danno, ch'è come a dire la pena, più intima e sottile, delle anime di coloro che senza speme vivono in desio» (Aleardo Sacchetto, 1965). 

2Un grande problema teologico: le anime non battezzate nel Limbo

Il Limbo nasce per rispondere a un problema che la gente comune sentiva, esattamente come in fondo nacque il Purgatorio. Dove vanno le anime di coloro che non hanno potuto liberarsi in tempo – attraverso il battesimo – del peccato originale? Le scritture parlavano chiaro: «Se uno non sarà rinato nell'acqua e nello Spirito Santo, non potrà entrare nel Regno di Dio.» (Gv 3,5); «Chi crederà e si battezzerà sarà salvo» (Mc 16,16). Lo stesso Gesù si era battezzato. 

Ne scrisse anche San Tommaso affermando che il Limbo dovrebbe essere più o meno una «pars quaedam superior» [una certa parte superiore] dell’Inferno, e suddividendolo in un «limbus patrum» é in un «limbus puerorum», ma la dottrina della particolare condizione delle anime del Limbo fu definita meglio ancora da San Bonaventura (Liber II sent, d. 33 a. 2), secondo il quale queste anime «carebunt actuali dolore et afflictione... quasi medium teneant inter beatos et aeternis ignibus cruciatos… ut... nec laeten tur nec tristentur, sed semper sic uniformites maneant» [le anime del Limbo saranno prive del dolore attuale e della sofferenza… quasi rimanendo a metà tra beati e condannati ai fuochi eterni in modo che non siano né tristi né liete, ma sempre restino in tale uniforme stato]. 

Queste parole richiamano da vicino le parole di Dante. Dunque queste anime non possono accedere al Paradiso e al Purgatorio (invenzione recente ai tempi di Dante) e pertanto dovevano finire nell’Inferno, secondo logica, ma ci vollero ben tre Concilii per stabilirlo. Fu così che l’incertezza teologica generò probabilmente dapprima l’esigenza di battezzarsi il prima possibile (onde evitare problemi) e venne ideato il Limbo dei bambini, che non fa parte della dottrina ufficiale della Chiesa. 

Sant’Agostino aveva poi un’idea molto radicale del Limbo e negava questa parziale salvezza ai pagani, ma – per buon senso – molti teologi ammettevano la possibilità del Limbo, in certi casi e condizioni, anche per i pagani. Si trattava, sempre di una possibilità non configurata in vero e proprio dogma, e mirante a trovare una soluzione per i casi più difficili o imbarazzanti in sede etico-dottrinale: uomini superiormente meritevoli (come, caso limite, un Aristotele che di sé aveva nutrito la cultura e la tèologia cristiane); pagani o «infedeli» vissuti rettamente secondo la loro religione; bambini morti senza battesimo, e via dicendo. 

3Struttura del Limbo

Nell'ambito di questa dottrina Dante ha inventato la sua soluzione con una sua avvertita e calcolata libertà: il Limbo è il primo cerchio dell'Inferno, in quanto l'esclusione dalla vista di Dio è di per se stessa già male massimo, ma non fa parte dell'Inferno vero e proprio: infatti Minosse – giudice infernale compare volutamente al canto successivo – ed è quindi sottratto alla giurisdizione di Lucifero. 

Da un punto di vista spaziale, Dante rispetta la suddivisione in due sezioni de Limbo

1) il Limbo degli infanti e della folla anonima di uomini e donne in difetto delle oggettive condizioni necessarie alla salvazione; 

2) il Limbo (castello) degli illustri (Limbus famae) suddivisibile a sua volte in due sezioni: 

  • illustri per vari titoli e meriti, elencati quasi alla rinfusa secondo il sincretismo proprio della cultura medievale, personaggi di varia provenienza e molti già nominati nell’Eneide;
  • sapienti veri e propri. Nell’ambiente-castello, infine, Dante ha «contaminato» la descrizione virgiliana dei Campi Elisi, dei quali è fatta anche rivivere l'atmosfera di ombrosa quiete, cui si unisce il motivo medievale del castello, dimora per eccellenza della nobiltà d’animo e potremmo dire dell’aristocrazia intellettuale.

4Canto IV dell’Inferno: personaggi

Canto IV Inferno di Dante: le anime innocenti nel Limbo
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Si tratta di un canto molto affollato: filosofi, poeti, medici, astronomi, comandanti, eroi… ci sono tutte le grandi anime del mondo antico – i megalopsychoi, in greco; i magnanimi, in latino – molti dei quali come abbiamo visto sono filosofi: Aristotele, Socrate, Platone, Seneca, Talete, Anassagora, Democrito, Empedocle… I personaggi del mondo antico incontrati da Dante nel senso in cui siamo abituati nella Commedia sono i poeti antichi che lo accolgono nel loro cenacolo: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano che, insieme a Virgilio, rappresentano un ideale letterario e un modello a cui rifarsi.  

Indirettamente Dante cita alcune sue fonti, per quanto, sia chiaro, non conosceva tutto di questi poeti: conosceva Omero solo per citazioni indirette perché le opere del poeta greco ancora non circolavano neanche in compendi e riduzioni in latino. Orazio è citato come “satiro” perché nel medioevo furono le sue Satire e le Epistole a circolare maggiormente; stesso discorso per Seneca di cui Dante dovette conoscere le lettere morali. Ovidio invece fu per Dante il poeta delle metamorfosi, una biblioteca di miti inesauribile da riutilizzare all’interno della sua opera. Lucano, citato per ultimo, meno grande degli altri, ispirò comunque a Dante scene di denso realismo tratte dalla Pharsalia. Incontriamo tra i vari Enea, Elettra, Re Latino, Lavinia; poi Cesare e il Saladino; Aristotele, Socrate e Platone, a lui più vicini degli altri, vidi poi Democrito, che sosteneva la casualità del mondo, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone; e vidi poi quel sapiente che studiò le qualità delle piante, ovvero Dioscoride; e vidi Orfeo, Cicerone, Lino e il filosofo Seneca; e poi Euclide, fondatore della geometria, e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, e Averroè. Dante mostra una grande apertura mentale al sapere del mondo antico che lui è grato di avere ereditato.  

5Canto IV dell’Inferno: analisi

Gesù scende nel limbo. Pittura di Bartolomé Bermejo del 1475
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Come abbiamo detto, questo canto rappresenta una breve pausa dagli incalzanti tormenti dell’Inferno. Il IV canto introduce nell’opera una gradazione nuova: il serio e il malinconico, un tono quasi dimesso che permette di scendere nell’intimità del pensiero di Dante che si domanda quale sia il fine della sapienza e dello studio, della poesia e della filosofia. Non c’è niente di drammatico, nessun avvenimento incalzante, solo un lento scorrere e camminare sulle terzine mentre si dipana il paesaggio intorno a noi che ricorda i Campi Elisi descritti da Virgilio. Possiamo anzi dire che il tono del canto sia proprio offerto dal poeta latino con il suo volto pallido che spaventa Dante; a questo si aggiunge l’echeggiare dei sospiri delle anime che crea come un muro spesso e compatto di suoni che i due poeti attraversano.

Pietà e angoscia dominano la scena ed è in questo clima che si svolge il dialogo tra discepolo e maestro sulla sorte delle anime destinate a questo luogo: «e di questi cotai son io medesmo» (39), afferma Virgilio. Anche lui è una di queste anime malinconiche. In tutta il canto c’è un contrasto o almeno una forte ambivalenza. 

Le anime del limbo sono in uno stato di quiete che contrasta con le anime degli ignavi del canto precedente, che in fondo sono un anti-modello. Anche gli ignavi non hanno peccato, ma neanche hanno fatto bene. Sono cioè dei pusillanimi, anime insulse. Mentre le anime del limbo sono anime buone, addirittura ci sono anche i magnanimi (i sapienti appunto), dalla grande anima. Essi hanno fatto il massimo che potevano nella loro vita. Sono tristi, anche se non soffrono; sono in quiete, ma non beate. Sospirano, ma sono tranquille nel loro stato di apparente imperturbabilità. La loro condizione è infatti contraddittoria, proprio come in fondo è contraddittorio il concetto di Limbo.

6La glorificazione di Virgilio nel canto IV dell’Inferno

Nel prosieguo del canto Dante incontra la grande scuola poetica che l’aveva proceduto ed è l’occasione di glorificare il suo maestro, “l’altissimo poeta”. Glorificare il maestro è causa di una seconda onorificenza: Dante è ammesso nel consesso dei poeti classici, con il pieno suggello dei poeti classici e del prezioso sorriso di Virgilio. Il maestro è orgoglioso del proprio discepolo, così come il discepolo è onorato di aver scelto in modo retto la sua guida. 

7La simbologia del castello nel canto IV dell’Inferno

Dante Alighieri
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Dopo questo interludio, ci si avvia al Castello dei Sapienti che viene descritto con un numero simbolico: sette mura, sette porte. I numerosi abitanti sono indicati dal poeta con una lunga elencazione, che sottolineano l’ampiezza dello scibile umano e il suo modo di porsi a servizio della verità. Perché il castello? Dante pensa in modo medievale e per lui il segno di forza e di impero si concretizza nel castello. Vediamo più da vicino la simbologia. Dante nel Convivio affermava: «è nobiltade ovunque è virtude» (IV, 19, 5). Virtù e nobiltà sono il segno distintivo di queste grandi anime e Dante istituisce per loro un castello, bello e nobile, con sette cerchia di mura e con sette porte – numeri simbolici dai tanti rimandi come le arti del Trivio e del Quadrivio; oppure la ripartizione della filosofia: Fisica, Metafisica, Etica, Politica, Economia, Matematica, Dialettica; oppure le sette virtù liberali.

Qui i sapienti riposano e riflettono sul mondo e sulla bellezza; tra questi Dante colloca anche il suo adorato maestro. E qui c’è luce, sebbene non sia la luce di Dio, ma la luce della loro stessa sapienza che irradia il suo bagliore. Per un attimo abbiamo l’impressione di essere in un luogo quasi felice, non più il «Carcere cieco», ma piuttosto la distesa dei Campi Elisi, che Dante attualizza nella sua opera. Il limbo è come un purgatorio che non prelude l’incontro con Dio, un’attesa che è destinata a restare frustrata per l’eternità.  

Borges definisce il castello dei sapienti come un “enorme museo delle cere”, in stile Madame Tussauds. Leggiamo:  

“La facoltà visionaria del poeta non aveva raggiunto ancora la sua pienezza. A questo relativo difetto si deve la rigidità che produsse il singolare orrore del castello e dei suoi abitanti, o prigionieri. C’è un che di penoso museo delle cere in quel quieto recinto: Cesare armato e ozioso, Lavinia eternamente seduta accanto al padre, la certezza che domani sarà come oggi, che è come ieri, che è stato come tutti gli altri giorni. Più avanti, un “grandi, in atto o in potenza. Sono esempi di ciò che ormai Dante era ai propri occhi e prevedibilmente sarebbe stato agli occhi degli altri: un famoso poeta. Sono grandi ombre venerate quelle che accolgono Dante nel loro conclave: ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera, /sì ch’io fui sesto tra cotanto senno. Sono forme dell’incipiente sogno di Dante, slegate appena dal sognatore. Parlano interminabilmente di letteratura (cos’altro potrebbero fare?). Hanno letto l’Iliade o la Farsaglia o scrivono la Commedia; sono maestri nell’esercizio della loro arte, e tuttavia sono nell’Inferno perché Beatrice li dimentica.” (Jorge Luis Borges. “Nove saggi danteschi”, Il nobile castello del quarto canto). 

8Il preumanesimo di Dante

Si è parlato di preumanesimo di Dante a proposito di questo canto per via della presenza di gran parte dei sapienti del mondo greco e romano. Parlare di un Dante umanista è certamente azzardato nel senso che intendiamo, ma forse dovremmo più semplicemente rivalutare il medioevo come la prima radice dell’Umanesimo e cessare di vedere nell’Umanesimo una sorta di resurrezione dall’ignoranza medievale che aveva boicottato il mondo antico. Se quel mondo antico è rimasto, è proprio perché gli uomini medievali nel segreto delle biblioteche hanno continuato a nutrirlo. Dante ha potuto così studiarlo e sentirsi intimamente parte di una lunga tradizione di uomini dediti alla sapienza e non solo; si è sentito nel cerchio ristretto dei grandi poeti di tutti i tempi; giustamente l’incontro con questi autori – Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio (che torna per un momento alla sua sede, svestendo i panni della guida) – avviene fuori dal tempo, nell’eternità della letteratura. È un incontro immaginario, ma ha il preciso significato di legare la nostra tradizione letteraria a quella antica. In questo senso Dante ci lega a quel mondo e indicando la sua appartenenza segna anche la nostra. 

9Canto IV dell’Inferno: testo

Ruppemi l'alto sonno ne la testa     

un greve truono, sì ch'io mi riscossi
come persona ch'è per forza desta;
e l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov'io fossi
.
Vero è che 'n su la proda mi trovai     

de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,     

io non vi discernea alcuna cosa.     

"Or discendiam qua giù nel cieco mondo",
cominciò il poeta tutto smorto.
"Io sarò primo, e tu sarai secondo".
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: "Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?".
Ed elli a me: "L'angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne
".     

Così si mise e così mi fé intrare     

nel primo cerchio che l'abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,     

non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan tremare;     

ciò avvenia di duol sanza martìri,     

ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri
.     

Lo buon maestro a me: "Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?     

Or vo' che sappi, innanzi che più andi,
ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch'è porta de la fede che tu credi
;     

e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti
, e sol di tanto offesi     

che sanza speme vivemo in disio".     

Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
"Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore",
comincia' io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:     

"uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?
".
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
rispuose: "Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.     

Trasseci l'ombra del primo parente,
d'Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,     

e altri molti, e feceli beati.     

E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati".
Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand'io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia
.     

Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non sì ch'io non discernessi in parte     

ch'orrevol gente possedea quel loco.     

"O tu ch'onori scïenzïa e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza
,     

che dal modo de li altri li diparte?".
E quelli a me: "L'onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza".
Intanto voce fu per me udita:     

"Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita
".
Poi che la voce fu restata e queta,     

vidi quattro grand'ombre a noi venire:
sembianz'avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:     

"Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l'altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene
".     

Così vid'i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com'aquila vola.     

Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;
e più d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch'io fui sesto tra cotanto senno
.     

Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere è bello,
sì com'era 'l parlar colà dov'era
.     

Venimmo al piè d'un nobile castello,     

sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;     

per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.     

Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.
Colà diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.
I' vidi Eletra con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l'altra parte, vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,     

Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.
Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,     

vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno
:     

quivi vid'ïo Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;     

Democrito, che 'l mondo a caso pone,     

Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone
;
e vidi il buono accoglitor del quale,     

Dïascoride dico; e vidi Orfeo,     

Tulïo e Lino e Seneca morale;     

Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno
,     

Averoìs, che 'l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.     

La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema.     

E vegno in parte ove non è che luca.     

10Canto IV dell’Inferno: parafrasi

[Un forte rumore interruppe il sonno nella mia testa, così che io mi svegliai di colpo come qualcuno che è svegliato a forza; intorno mossi lo sguardo ristorato, mi levai in piedi cercando di capire con attenzione dove mi trovassi. In verità ero sulla parte estrema della dolorosa valle infernale, che accoglie intorno a sé il frastuono degli infiniti lamenti. Talmente oscura e nebbiosa, che pur penetrando a fondo con lo sguardo, nulla mi era visibile. «Adesso cominciamo a scendere nel mondo senza luce,» cominciò a dire Virgilio, con un pallore sul viso. «Io scenderò per primo, tu per secondo». E io, accortomi di quanto fosse pallido, dissi: «Come riuscirò a scendere, se tu, l’usuale conforto di ogni mio dubbio, sei spaventato?». E lui a me: «L'angoscia delle anime che sono confinate qui dipinge segna sul mio volto il tormento che tu credi paura. Andiamo: il viaggio è lungo e non c’è tempo da perdere.» Così proseguì e mi introdusse nel primo cerchio che attornia l’abisso infernale. Intenti qui ad ascoltare, solo dei sospiri si udivano e l’aria eterna ne tremava; questo era l’effetto del dolore privo di tormento che le schiere delle anime subivano, numerose, fatte di bambini, uomini e donne. Mi disse il buon maestro: «Non domandi chi sono questi spiriti che tu vedi? Adesso io voglio che tu sappia, prima di proseguire oltre, che essi non peccarono; e se anche essi abbiano avuto meriti, ciò non è sufficiente, perché non ricevettero il battesimo, l’unica porta per la fede in cui tu credi; e se vissero prima del Cristianesimo, non amarono Dio nel giusto modo: e di questi faccio parte anch’io. Siamo perduti per queste colpe e per nient’altro, e la nostra sola sofferenza è vivere in un desiderio senza speranza». Un grande dolore mi strinse il petto, non appena compresi quelle parole, poiché capii che in quel Limbo erano sospese persone di grande valore. «Dimmi, o mio maestro, dimmi, signore,» cominciai io per accertarmi di quella fede che vince ogni errore: «è mai accaduto che qualcuno mai uscisse da qui, per merito proprio o di altri, che diventasse beato?» E Virgilio, che subito intese il vero senso del mio discorso, rispose: «Ero qui da poco, quando vidi entrare qui un possente, recando i segni della vittoria, incoronato. Fece uscire da qui l'ombra di Adamo, di suo figlio Abele e di Noè, di Mosè, legislatore ubbidiente; poi quella del patriarca Abramo e del re David, Israele coi suoi figli e con la moglie Rachele, per cui fece molto; e poi ancora molti altri, e tutti rendendoli beati. E voglio che tu sappia che nessuno spirito si era potuto salvare prima di loro». Non interrompevamo il cammino mentre Virgilio parlava, ma procedevamo sopravanzando quella fitta selva di spiriti. Non avevamo fatto molta strada da quando mi ero risvegliato, quando io vidi una luce che superava un emisfero di tenebre. Pur essendo ancora lontani da lei, capii che quel luogo era occupato dai grandi spiriti degni d’onore. «O tu che rendi onore alla scienza e all'arte, chi sono costoro che godono di siffatta considerazione tanto da meritare una condizione diversa dalle altre anime?» Virgilio mi rispose: «Il nome onorato, la fama che nel mondo terreno di loro ancora sopravvive, permette una grazia in Cielo che li distingue dagli altri spiriti». Nel frattempo io udii una voce: «Onorate l'altissimo poeta: la sua anima, ritorna l’ombra sua, che prima era andata via». Cessata e acquietata la voce, vidi venirci incontro quattro grandi anime dall’aspetto né triste né lieto. Il buon maestro prese a dire: «Guarda bene quello che impugna la spada, precedendo gli altri come se fosse il loro signore: quello è Omero, il più grande di tutti i poeti; l'altro che lo segue è Orazio, autore delle Satire; il terzo è Ovidio, l'ultimo è Lucano. Dato che ognuno di loro ha in comune con me il nome di poeta, che prima ha risuonato, mi rendono onore e in questo fanno bene».
Così vidi radunarsi la bella scuola di quei signori dell’altissimo canto, che vola sopra tutti come un’aquila. Dopo che ebbero confabulato tra loro, si rivolsero a me facendomi un cenno e il mio maestro sorrise per l’onore fattomi; ma mi onorarono ancora di più, perché mi accolsero nella loro schiera, così che fui il sesto in questo gruppo di sublime sapienza. Procedemmo fino alla lucerna, parlando di cose che è bello tacere, proprio come in quel luogo era bello parlarne. Venimmo, dunque, ai piedi di un maestoso castello, cerchiato per sette volte da mura alte, difeso intorno da un piccolo fiume. Lo oltrepassammo come fosse di terra; con questi sapienti entrai attraverso sette porte finché arrivammo in un prato di erba rigogliosa. Lì c’erano delle anime con sguardi sereni, ma austeri e il loro aspetto era venerabile: parlavano solo ogni tanto, con voce dolce. Ci mettemmo così in uno degli angoli, in un punto aperto e pieno di luce, in alto, in modo che potessimo vederli tutti quanti. Davanti a me, sopra quel prato verde brillante, mi furono mostrati gli spiriti magni, e gioisco ancora per averli visti. Vidi Elettra con molti compagni, tra i quali riuscii a riconoscere Ettore ed Enea, poi Cesare armato con gli occhi predatori. Vidi Camilla e Pentesilea. Dalla parte opposta c’era il re Latino, il quale sedeva con la figlia Lavinia. Vidi poi Lucio Bruto, che cacciò Tarquinio il Superbo, Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia; e per conto suo, in un angolo, vidi il Saladino. Dopo che alzai appena lo sguardo, vidi il maestro di tutti la stirpe dei filosofi in mezzo ai discepoli. Tutti lo guardano e gli fanno onore: qui io vidi Socrate e Platone, a lui più vicini degli altri, vidi poi Democrito, che sosteneva la casualità del mondo, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone; e vidi poi quel sapiente che studiò le qualità delle piante, ovvero Dioscoride; e vidi Orfeo, Cicerone, Lino e il filosofo Seneca; e poi Euclide, fondatore della geometria, e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, e Averroè che scrisse il grande commento ad Aristotele. Io non posso parlare di tutti a pieno, poiché la vastità della materia che sto trattando mi incalza a tal punto che devo omettere i particolari. Il gruppo di sei poeti si divide in due: il saggio maestro mi conduce per un'altra via, fuori dell'aria quieta e verso quella che è percorsa dalla burrasca. E giungo in un luogo dove non splende luce.]

11Canto IV dell’Inferno: sintesi

  • vv. 1-12. Un gran tuono risveglia il poeta. Il quale si guarda intorno e si accorge di essere aldilà dell’Acheronte, sull’orlo della voragine infernale buia e nebulosa.
  • 13-45. Virgilio spiega che è il momento di proseguire; è pallido, perché conosce bene il tormento del luogo in cui si trovano. Il pallore di Virgilio è simbolo di pietà. Lentamente si avverte la presenza delle anime attraverso i loro sospiri che echeggiano in modo spettrale attraverso la nebbia. Virgilio spiega a Dante dove si trovano, sorpreso che non sia stato il discepolo per primo a porgere la domanda.
  • vv. 46-63. Dante rivolge una domanda particolare a Virgilio: chiede se mai qualcuno sia uscito dal Limbo, per avere conferma della propria fede; Cristo, infatti, era sceso agli inferi tra la morte e la resurrezione. Virgilio dà conferma e spiega al discepolo che Cristo era sceso e aveva fatto uscire i grandi padri dell’Antico Testamento.
  • vv. 64-105. Entrano in scena i grandi poeti dell’antichità: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano. Virgilio si accosta a loro e discorre amabilmente. I poeti invitano Dante a intrattenersi con loro e a discorrere. Dante si avvicina “sesto” poeta del gruppo e dice che non dirà quel che si sono detti.
  • vv. 106-114. Descrizione del nobile castello.
  • vv. 114-151. L’ingresso nel Castello dei Sapienti dove vengono mostrate a Dante tutte le grandi personalità del passato. Tutte sono serene, ma dal volto austero. Qui incontriamo filosofi e politici, ma anche personaggi della mitologia. Usciti dal Castello, la compagnia di poeti si separa e Dante e Virgilio proseguono oltre.

12Guarda il video sul Canto IV dell'Inferno

    Domande & Risposte
  • Perché Virgilio sente pena per le anime che si trovano nel limbo?

    Perché sono anime che lui conosce, grandi nomi della storia e della Filosofia. Li conosce perché anche lui, Virgilio, è relegato in quel luogo.

  • Quali sono le anime che si trovano nel limbo?

    Si trovano le anime dei pagani ma anche quelle dei bambini morti senza battesimo.

  • Dove vengono collocati gli ignavi da Dante?

    Il Poeta li colloca nell'Antinferno di cui si racconta nel canto III dell'Inferno.