Canto XV dell'Inferno: testo, parafrasi, significato e analisi del canto in cui Dante incontra Brunetto Latini

Significato e analisi del canto XV dell'Inferno di Dante che racconta dell'incontro del Poeta con Brunetto Latini. Testo e parafrasi del canto che si svolge nel terzo girone del settimo cerchio.
Canto XV dell'Inferno: testo, parafrasi, significato e analisi del canto in cui Dante incontra Brunetto Latini
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1Inferno, Canto XV, introduzione

Dante Alighieri
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Kurt Vonnegut nelle sue famose orazioni per i laureati nei College era solito pronunciare questo particolare discorso, che è una sorta di ode agli insegnanti: «Quanti di voi hanno avuto un insegnante, in qualunque grado di istruzione, che vi ha resi più entusiasti di essere al mondo, più fieri di essere al mondo, di quanto credevate possibile fino a quel momento? Alzate le mani, per favore. Adesso abbassatele e dite il nome di quell’insegnante a un vostro vicino, e spiegategli che cosa ha fatto per voi. Ci siamo? Cosa c’è di più bello di questo?» (Quando siete felici fateci caso).  

Se Dante fosse stato a uno di questi discorsi, forse avrebbe detto a un vicino questo nome: ser Brunetto Latini. E avrebbe aggiunto questa motivazione: mi ha insegnato come l’uomo diventa eterno.  

L’incontro tra Dante e Brunetto è un omaggio del discepolo al maestro e al tempo stesso un omaggio a sé stesso di Dante per avere imparato molto dal primo ed essere riuscito a superarlo ricollegandosi a una più vasta tradizione letteraria, simboleggiata dall’altro maestro che lo accompagna, cioè Virgilio. È un incontro all’insegna dell’amicizia e della stima, ma anche della condanna. 

Viene da chiedersi perché Dante vi abbia messo una persona che stima così tanto e di cui ha una cara immagine paterna, e per di più infamandolo del peccato di sodomia. Guglielmo Gorni sottolinea che la tradizione di Brunetto maestro di Dante sia contenuta nella Commedia e poi nelle Esposizioni di Boccaccio. Altre fonti non ci sono.   

E poi si sofferma sul misterioso verso che abbiamo appena citato: «come l’uom s’etterna». Il punto è proprio qui. Storica o no la frequentazione di Brunetto, «maestro di varia umanità o di comportamento civile» (Pasquini-Quaglio), Dante gli riconosce una grande e importante lezione: diventare eterni con la fama letteraria.   

  • Tempo: alba di sabato 9 aprile 1300.
  • Luogo: settimo cerchio, terzo girone.
  • Personaggi: Dante e Virgilio, Brunetto Latini, Prisciano, Francesco d’Accorso, Andrea de’ Mozzi.
  • Colpa: peccato di sodomia, violenza contro Dio per quanto riguarda la natura, che è figlia di Dio.
  • Pena: i dannati camminano in un sabbione infuocato sotto una pioggia di fuoco.
  • Contrappasso: essendo andati contro natura, la natura per analogia cade su di loro come pioggia di fuoco anziché d’acqua (inversione: il fuoco dovrebbe salire verso l’alto, la pioggia cadere verso il basso).

2Inferno, Canto XV: testo

Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,  

fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.  

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch'i' non avrei visto dov'era,
perch'io in dietro rivolto mi fossi
,  

quando incontrammo d'anime una schiera
che venian lungo l'argine, e ciascuna  

ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna
;
e sì ver' noi aguzzavan le ciglia  

come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò
: "Qual maraviglia!".
E io, quando 'l suo braccio a me distese,  

ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che 'l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio 'ntelletto;  

e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: "Siete voi qui, ser Brunetto?".
E quelli: "O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia".
I' dissi lui: "Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco".
"O figliuol", disse, "qual di questa greggia
s'arresta punto, giace poi cent'anni
sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia
.
Però va oltre: i' ti verrò a' panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni
".
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino
tenea com'uom che reverente vada
.
El cominciò: "Qual fortuna o destino  

anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?  

e chi è questi che mostra 'l cammino?".  

"Là sù di sopra, in la vita serena",
rispuos'io lui, "mi smarri' in una valle,
avanti che l'età mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand'ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle
".
Ed elli a me: "Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;  

e s'io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto
.  

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico
,
e tiene ancor del monte e del macigno,  

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico
.  

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;  

gent'è avara, invidiosa e superba:  

dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,  

s'alcuna surge ancora in lor letame,  

in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta".
"Se fosse tutto pieno il mio dimando",
rispuos'io lui, "voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando;
ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora,  

la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m'insegnavate come l'uom s'etterna
:  

e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.  

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s'a lei arrivo
.  

Tanto vogl'io che vi sia manifesto,  

pur che mia coscïenza non mi garra,
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:  

però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra
".  

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: "Bene ascolta chi la nota".  

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto
, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me: "Saper d'alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché 'l tempo sarìa corto a tanto suono.  

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama
,  

d'un peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,  

dove lasciò li mal protesi nervi.  

Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone
più lungo esser non può, però ch'i' veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.  

Gente vien con la quale esser non deggio.  

Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio
".  

Poi si rivolse, e parve di coloro  

che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna
; e parve di costoro  

quelli che vince, non colui che perde.  

3Inferno, Canto XV: parafrasi

Dante incontra Brunetto Latini
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[Adesso uno degli argini rocciosi ci allontana dalla selva e le nebbie del Flegetonte fanno ombra di sopra, in modo da proteggere dal fuoco sia l'acqua sia gli argini stessi. Come i Fiamminghi fra Wissand e Bruges, temendo che la marea si avventi su di loro, alzano dighe perché il mare stia lontano; e come lungo il Brenta fanno i Padovani per difendere le loro ville e i loro castelli prima che la Carinzia avverta il caldo della primavera; così erano costruiti quegli argini, sebbene il maestro costruttore, chiunque sia stato, non li aveva eretti così alti e spessi.
Ormai eravamo piuttosto lontani dalla selva tanto che se anche mi fossi voltato, non l'avrei più vista, quando incontrammo una schiera di anime che veniva lungo l’argine, e ognuna di esse ci guardava come quando si osserva qualcuno nella sera di novilunio; e strizzavano gli occhi verso di noi come il vecchio sarto quando infila l'ago nella cruna.
Così, mentre ero guardato da tale schiera, uno di loro mi riconobbe e mi prese per il lembo della veste e mi gridò: «Che meraviglia!». E io, non appena lui tese il suo braccio verso di me, fissai i miei occhi al suo volto e, benché fosse tutto bruciato, non faticai a riconoscerlo. E avvicinando la mano al suo viso, gli risposi: «Ser Brunetto, siete proprio voi?». E lui a me: «Figliolo, spero non ti dispiaccia se Brunetto Latini torna un po' indietro con te e lascia proseguire la schiera». Io gli dissi: «Quanto posso, io ve ne prego; e se volete che io mi fermi un attimo con voi, lo farò, purché sia d’accordo la mia guida». Rispose: «Figliolo, se un dannato di questa schiera si ferma un solo istante, poi deve starsene fermo cent'anni senza potersi riparare quando il fuoco lo ferisce. Perciò prosegui: io camminerò con te e poi raggiungerò la mia schiera, che va piangendo la sua dannazione eterna». Non avevo il coraggio di scendere dall'argine per camminargli accanto; ma abbassavo il capo, in segno di deferenza. Lui cominciò: «Quale sorte o destino ti conduce qui prima della tua morte? E chi è costui che ti fa da guida?». Io gli risposi: «Lassù, nella vita serena, mi sono perso in una valle prima che la mia vita raggiungesse il suo culmine. Solo ieri mattina ne sono uscito: mi apparve costui (Virgilio), mentre ci stavo rientrando, e mi riporta alla mia casa per questo cammino». E lui a me: «Se seguirai la tua stella, non potrai non giungere al glorioso porto, se ho inteso bene quando ero anch’io in vita; e se non fossi morto troppo presto, vedendo il cielo verso di te così ben disposto, ti avrei aiutato a compiere la tua opera. Ma i Fiorentini, quell’ingrato e malvagio popolo che discese un tempo da Fiesole e che conserva ancora i modi rozzi dei montanari, sarà presto tuo nemico per le tue buone azioni: e non sarà a torto, poiché non è opportuno che il dolce fico nasca tra i frutti agri. Un vecchio proverbio li definisce ciechi; è gente avara, invidiosa e superba: non lasciarti condizionare dai loro costumi. La tua fortuna ti riserva tanto onore che entrambe le parti – i Bianchi e i Neri – vorranno sfogare il loro odio contro di te; ma a quel punto l'erba sarà lontana dal caprone. Le bestie di Fiesole si divorino tra loro e non tocchino la pianta, ammesso che possano ancora nascerne nel loro letame, in cui rivive il santo seme di quei Romani che restarono a Firenze quando il nido di tanta malvagità fu fondato».
Io gli risposi: «Se potessi esaudire ogni mio desiderio, vorrei che foste ancora tra i vivi; poiché nella mia memoria è ben presente (e il pensiero ora mi commuove) la cara e buona immagine paterna di voi quando nel mondo mi insegnavate di quando in quando in che modo l’uomo guadagna l’eternità: e finché sarò vivo, le mie parole esprimeranno quanto ciò mi sia gradito. Ciò che mi annunciate della mia vita, lo tengo bene a mente, e mi riservo di farmelo spiegare insieme a un'altra profezia da una donna che saprà farlo, se mai arriverò sino a lei. Ma questo voglio dirvi con chiarezza che, purché la mia coscienza non mi rimproveri, sono pronto a sopportare i colpi della sorte, qualunque essi siano. Non mi giunge nuova questa profezia: ebbene la Fortuna giri pure la sua ruota come vuole, e il contadino la sua zappa». Il mio maestro allora si volse indietro, sulla sua destra, e mi guardò, dicendo poi: «Apprende bene questa lezione chi ben la scrive nella sua memoria». Nondimeno continuai a camminare e a parlare con ser Brunetto, chiedendogli chi fossero i suoi compagni di pena più importanti. E lui a me: «È bene conoscerne giusto qualcuno: degli altri sarà lodevole tacere, perché mancherebbe il tempo per elencarli tutti. Sappi insomma che furono tutti chierici e grandi letterati e molto famosi, tutti sporchi dello stesso peccato. Prisciano va con quella brutta schiera, e anche Francesco d'Accorso; e avrei potuto vederci, se avessi desiderio di vedere un tale sudiciume, quello che il servo dei servi (Bonifacio VIII) trasferì dalla città sull’Arno a quella sul Bacchiglione, dove morì lasciando i suoi sensi ancora protesi al vizio. Ti direi di più, ma non posso trattenermi e parlare oltre, poiché vedo già alzarsi di là nuovo fumo dal sabbione. Arrivano anime con la cui schiera non devo mescolarmi. Ti raccomando il mio Trésor nel quale io vivo ancora, e oltre non chiedo». Poi si voltò e mi sembrò uno di quelli che a Verona corrono il palio per il drappo verde, nella campagna; e sembrava colui che vince e non colui che perde.] 

4Sodomia e Letteratura: la condanna di Brunetto

Il rapporto tra sodomia e studianti (o studiosi o letterati) sembra, stando alle parole di Brunetto, quasi fin troppo noto. Evidentemente c’è un nesso che alcuni critici hanno individuato nel sapere libresco opposto al sapere della parola e dunque l’andare contro natura sarebbe andare contro la parola di Dio, che è massima espressione del verbo. Questa critica ai letterati e agli studianti sarà poi ripresa e resa ancora più feroce da poeti successivi a Dante, vale a dire Stefano Finiguerri detto Za, Domenico di Giovanni detto il Burchiello che prendono le mosse proprio da questa passo di Dante.

Resta da capire perché Brunetto sia stato condannato se è vero che la sua bisessualità – giacché era sposato con figli – era un fatto privato, di cui pochissimi erano a conoscenza: Dante-personaggio è sorpreso, segno che il Dante-autore sapeva bene che questo fatto non era di dominio pubblico. Questo dimostrerebbe anche l’estrema vicinanza di Dante a Brunetto.

E perché indurlo a dire che tra i sodomiti vi erano tantissimi chierici e famosi intellettuali, quando tra quelli citati l’unico sembra essere Prisciano, di difficile identificazione. Gli altri due infatti non erano di Firenze, come il giurista Francesco d’Accorso, anch’egli di Bologna come magister Prisianus, ma forse ateo, non sodomita, o erano dei farabutti come il vescovo Andrea de’ Mozzi, tutto fuorché un letterato. Questo canto resta per molti aspetti oscuro

Anche il finale con la corsa di Brunetto talmente agile e scattante da sembrare un corridore ha un che di grottesco che non si addice alla cara e buona immagine paterna con cui il poeta l’aveva salutato. C’è allora il desiderio di umiliare il maestro, pur riconoscendogli il punto fondamentale, cioè, come detto, avergli insegnato il valore della letteratura. Ma basta per ottenere la salvezza dell’anima? No ed è questa l’origine della forte tensione di questo passo: Brunetto vive solo nel suo Tesoro. Dante, per andare sul sicuro, vestì i panni del pellegrino nell’eternità in cerca della salvezza. E ci è riuscito, perché è arrivato fino a noi. Per curiosa ironia, è grazie a Dante che il Tesoro e Brunetto si sono salvati dall’oblio. Brunetto nell’Inferno è un segno di rinuncia a un determinato tipo di letteratura che lui rappresenta.

5Sintesi narrativa del Canto XV dell’Inferno

  • vv. 1-21 Dante e Virgilio camminano lungo il Flegetonte, una barriera di vapore impenetrabile li protegge dalle fiamme che cadono sul sabbione dove senza sosta, a schiere, vanno i sodomiti.
  • vv. 22-54 L’incontro con Brunetto Latini è rispettoso e amichevole. Il peccatore non può fermarsi e così i due camminano insieme, ma separati dall'argine del fiume. Dante parla del suo smarrimento nella selva e del viaggio intrapreso sotto la guida di Virgilio.
  • vv. 55-99 Brunetto gli annuncia profeticamente le difficoltà che incontrerà nel rapporto con i suoi concittadini, invidiosi e corrotti; Dante risponde che ormai sa resistere ai colpi della Fortuna.
  • vv. 100-124 Brunetto dice che tra i sodomiti stanno anche Prisciano di Cesarea, grande grammatico, il giurista Francesco d'Accorso e il vescovo Andrea de' Mozzi; poi saluta Dante, raccomandandogli la sua opera, il Trésor. Si allontana quindi di corsa, per raggiungere una schiera di peccatori.

6Canto XV dell’Inferno: personaggi

6.1Il maestro di Dante: Brunetto Latini

Brunetto nacque nel terzo decennio del XIII secolo, dal notaio Bonaccorso Latini, originario della Lastra nei pressi di Firenze. Dopo aver appreso grammatica e retorica dal padre, fu avviato alla carriera notarile. Si occupò di politica attiva come guelfo, fu anche ambasciatore e magistrato, retore, filosofo, divulgatore della cultura retorica. Fu quindi una delle figure più rappresentative nella Firenze del XIII secolo.  

Nel 1260 compi un'ambasceria presso Alfonso X di Castiglia, per chiedergli aiuti contro Manfredi, ma nel viaggio di ritorno, avuta notizia della sconfitta di Montaperti (1260), nella quale i Guelfi fiorentini furono sconfitti dai Ghibellini, fu costretto all'esilio in Francia.  

Tornato in patria dopo la battaglia di Benevento, nella quale i Ghibellini ebbero la peggio e dopo la quale i Guelfi ripresero forza e potere, fu notaio e dettatore ufficiale del Comune di Firenze. Negli anni seguenti svolse funzioni politiche ancora più importanti. Nel 1275 fu console dell'arte dei giudici e notai. Nel 1284 fu tra i negoziatori della pace con Pisa e Lucca

Morì nel 1294 e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria Maggiore, dove sono ancora i resti del suo monumento funebre. 

Svolse anche una notevole attività di letterato. Nel corso dell'esilio compose il Trésor. Compose poi il Tesoretto, un poemetto didascalico, in versetti rimati a coppie, in forma falsamente autobiografica, riguardante un viaggio simbolico nell'oltretomba; costituisce perciò un precedente immediato della Commedia. 

6.2Prisciano di Cesarea o di Bologna o l’eretico Priscilliano?

Abbiamo un caso di omonimia per il nostro Prisciano di Cesarea vissuto nel VI sec. e un altro Prisciano, più recente, vissuto a Bologna nel XIII secolo. Il vizio di cui l’incolpa Dante non è ovviamente comprovato in nessun’altra fonte. Prisciano di Cesarea è stato un grammatico latino vissuto a Bisanzio, dove fu insegnante di lingua latina sotto l'imperatore Anastasio. 

Compose la maggiore opera di grammatica latina a noi pervenuta, la Institutio de arte grammatica, in 18 libri: i primi 16 (Priscianus maior) la vera e propria grammatica, gli ultimi 2 (Priscianus minor) la sintassi. La fortuna dell'Institutio fu grande, soprattutto nel Medioevo, e Dante l’avrà certamente studiata. 

L’altro Prisciano insegnò grammatica nello Studio di Bologna e, se fosse lui, Dante potrebbe averlo conosciuto nei suoi anni di studio nella città felsinea. È un bel grattacapo di cui non è facile la soluzione. 

Da una parte Dante indica spesso con un solo nome l’intera categoria – procedimento tipico dell’exemplum medievale – e quindi indica col maestro di grammatica, tutti i maestri di grammatica. Dall’altra la presenza di Francesco d’Accorso, ugualmente legato a Bologna, suggerirebbe che questa possibilità non sia da scartare, visto e considerato che Dante avrebbe potuto avere fonti dirette per simile condanne. 

Un’ultima possibilità spetta al vescovo Priscilliano che fondò un suo movimento e fu il primo eretico messo a morte dalla Chiesa. Nonostante le condanne del suo movimento, P., diventato dapprima sacerdote, fu nominato vescovo d'Avila nel 380 ca., ma poco dopo fu esiliato, nel 381, dall'imperatore Graziano (375-383). Il suo movimento univa diverse dottrine ed era all’insegna del pauperismo. Fu decapitato nel 383

6.3Francesco d’Accorso

Studiò all'Università di Bologna e in seguito insegnò diritto civile nella stessa università fino al 1273. Successivamente venne chiamato all'Università di Oxford da Edoardo I d'Inghilterra. Un anno dopo la sua partenza gli vennero confiscati i beni a Bologna in quanto ghibellino. Quando tornò nella sua città, nel 1291, essi gli vennero comunque resi. 

Ebbe due fratelli, Cervottus e Guglielmo, che, come lui, studiarono il diritto con il padre. Fu sepolto accanto al padre a Bologna. La sua tomba è ancora oggi conservata. 

6.4Andrea de’ Mozzi

Dante indica questo «cherco» con una perifrasi, ma l’identificazione risultò facile da subito con il fiorentino Andrea de' Mozzi, già canonico e, dal 1287, vescovo di Firenze da cui, nel 1295, fu trasferito al vescovado di Vicenza, dove morì nel 1296.  

Dante lo conobbe e prese per vere le voci che i fiorentini mettevano in circolazione su di lui. Non sorprende che del peccato per cui è condannato nel canto nulla si sa, anche se Boccaccio lo dà per certo. Sorse quindi una discreta aneddotica sul suo conto grazie a Boccaccio e a un altro commentatore Benvenuto da Imola. Si sa invece grazie a fonti d’archivio che l’episcopato di Andrea non andò senza abusi e gravi attriti col clero fiorentino, né senza circolazione di gravi maldicenze, come si ricava da una lettera di un prelato fiorentino di quegli anni pubblicata da E. Sanesi (1938), e conferma indirettamente il fatto stesso del trasferimento punitivo da Firenze a Vicenza (fu insomma declassato).  

7Analisi del testo del Canto XV dell’Inferno

7.1Lo spazio nel canto XV dell’Inferno

L'Inferno di Dante
Fonte: ansa

Il canto si apre con un rapido alternarsi di parole sdrucciole e piane (margini – aduggia – argini), con un ritmo altalenante di endecasillabi accentati sulla quarta e sull’ottava sillaba, con quelli accentati sulla seconda e sulla sesta. Questo espediente crea una forte tensione che si adatta al rilievo ambientale degli argini di pietra, base di appoggio su cui si muovono i due poeti. Nei due termini sdruccioli («màrgini» e «àrgini»), evidenziati dalla rima, si scorge l’indefinitezza dell'estensione di quegli argini. 

Lo sfondo è dominato però dalla presenza del fuoco e del vapore come se fossimo in un’immensa sauna: la natura e i modi di questa colpa sono addirittura espressi nel primo verso (v. 4) della prima similitudine: «Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia», che nascondono al loro interno le parole fiamma, guizzante (come il fuoco), brucia. Dante unisce il dato geografico adatto, perché i Fiamminghi avevano costruito dighe con il dato sonoro. A questa prima similitudine nordica e probabilmente libresca, se ne aggiunge una seconda più nostrana, le difese apprestate sulle rive del Brenta dai padovani per contenere l’aumento delle acque allo sciogliersi dei ghiacciai primaverili. Si va dunque da una prospettiva che si allarga sugli spazi più aperti del minaccioso mare del Nord, a una più domestica e italiana, di cui Dante ebbe probabilmente esperienza diretta. 

7.2L'atmosfera notturna e le difficoltà di percezione visiva

Elemento che ricorrre è lo sguardo con termini tratti dal campo semantico della vista; sforzo visivo presente potenzialmente anche in Dante, se avesse cercato, voltandosi indietro, di rivedere da lontano la selva dei suicidi (vv. 13-15). Applicazione reale nella schiera dei sodomiti, ciascuno dei quali «ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna», (18-20). Poi la difficoltà di scarsa percezione è precisata in un'altra similitudine d'ambiente urbano: «e sì ver' noi aguzzavan le ciglia / come 'l vecchio sartor fa ne la cruna» (vv. 20-21). Sembra davvero di essere in una città medievale, magari in una botteguccia dove si poteva osservare un vecchio sarto presbite, che cerca più e più volte d'infilare il filo nella cruna dell'ago. Qualcuno ha addirittura colto, in questa sottolineatura dell'attenzione visiva da parte dei sodomiti, una punta amara di voyeurismo che sarebbe proprio di questi dannati. 

7.3L'incontro fra Brunetto Latini e Dante

Un'esclamazione genuina stupore: «Qual maraviglia!» da parte di Brunetto, che, contemporaneamente, ha addirittura afferrato il lembo della veste di Dante – gesto fin troppo confidenziale sottolineato anche dall'enjambement dei versi 23-24, ma in questo canto ricorrono gesti fisici accompagnati alle parole. La risposta di Dante è altrettanto improntata alla meraviglia: «Siete voi qui, ser Brunetto?», ma si nota la punta amara. Il contrasto è soprattutto fra quel «voi» reverenziale e il «qui», che esprime la turpitudine del luogo, che riflette la grandezza intellettuale e civile di Brunetto e la debolezza di uomo macchiatosi di un vizio infamante. 

La tensione che attraversa l’episodio – tensione, che attraversa tutto il canto basata sul contrasto tra la condanna e l’amore per il maestro – è già presente in quella visiva di cui abbiamo parlato prima, e coinvolge anche Dante stesso: «E io, quando 'l suo braccio a me distese, / ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, / sì che 'l viso abbrusciato non difese / la conoscenza süa al mio 'ntelletto» (vv. 25-28). 

Per la durata di tutto l'episodio si crea «una prospettiva obliqua» (Segre), in quanto Brunetto, lasciata la schiera, cammina a fianco di Dante ma più in basso rispetto a lui, che procede col capo chino, per cui gli sguardi sono di traverso. Non ci sono alternative possibili, dacché fermarsi non è consentito per decreto divino. Il «capo chino» di Dante, reverenza verso il maestro è anche implicitamente un guardare dall'alto in basso, con tanto di condanna morale.  

7.4La profezia di Brunetto Latini

Dante in esilio presso la corte di Ravenna
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Brunetto preannuncia a Dante l’esilio, causato dall’ingratitudine e dalla malvagità dei fiorentini assumendo un ruolo significativo e quanto mai autorevole nell'economia dell'intero poema. La profezia post quem (cioè era già avverata nella realtà per il Dante-autore) è una scusa per celebrare la statura morale di Dante, il «dolce fico» che non può fruttare tra «li lazzi sorbi».

Il «ben far», il bene operare, l'onestà dell'agire politico, di Dante, lo renderà nemico ai fiorentini, avidi, invidiosi e superbi come sono. Eppure come ha suggerito Alessandro Barbero non è impossibile che Dante nel marasma politico in cui venne a trovarsi possa aver commesso dei passi falsi a fin di bene. Il discorso di Brunetto è incentrato sul campo semantico del cibo, giacché la fame – quella di potere – è uno dei connotati della politica legato agli istinti, proprio dei fiorentini (e infatti avevamo trovato il primo fiorentino, Ciacco, proprio tra i golosi). Già si sono ricordate le metafore del «dolce fico» e de «li lazzi sorbi», in evidente antinomia tra loro esprimendo la prima dolcezza, la seconda acidità, asprezza); seguono le immagini forti l’altra dei vv. 71-72: «ľuna avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l'erba», e ancora più nauseanti olfattivamente, dello «strame» e del «letame».

Dalle parole di Brunetto emerge la concezione dantesca della società, tendenzialmente conservatrice. I Fiorentini si dividono in due categorie: la parte malvagia è quella che ha origine dai rustici e selvatici fiesolani, montanari; quella buona e nobile trae origine dai Romani che rimasero a Firenze al momento della sua fondazione.

In base a quanto detto e per via delle numerose suggestioni contenute nel canto – la condanna pubblica che Dante opera su Brunetto per motivi presumibilmente privati, la ritorsione di Brunetto contro Firenze – restano scoperti molti punti di questo canto che fugge via proprio come Brunetto nella chiusa icastica, un podista al palio del drappo verde a Verona. Fugge per riprendere il suo cammino di dannato che non porta a nulla, mentre Dante prosegue altro cammino e giungerà “a piaggia per altri porti”. E anche noi proseguiamo con lui.  

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