Coro atto 3 e atto 4 Adelchi: analisi e parafrasi

Adelchi: coro atto 3 e atto 4. Analisi, metrica e parafrasi del coro degli ultimi due atti della tragedia di Alessandro Manzoni

Coro atto 3 e atto 4 Adelchi: analisi e parafrasi
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ADELCHI

L'Adelchi è una tragedia di Alessandro Manzoni divisa in quattro atti. È ambientata nell'Italia settentrionale del 772-774 d. C. e racconta le vicende che portarono alla discesa dei Franchi di Carlo Magno e alla sconfitta di Desiderio, ultimo re dei Longobardi, di cui Adelchi è il figlio.

 

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Coro atto 3: analisi

Come nel Conte di Carmagnola un coro commentava la battaglia di Maclodio, così nell’Adelchi un coro, collocato alla fine dell’atto III, è dedicato alla guerra fra Franchi e Longobardi.
Di nuovo l’autore si rivolge ai Latini (cioè agli Italiani di allora) per esortarli a non farsi illusioni e a prendere in mano il proprio destino senza contare sull’aiuto straniero.
Il coro si divide in due parti: la descrizione (v.1-130) del conflitto tra Franchi e Longobardi e del comportamento imbelle di una popolazione, quella latina, che non è un popolo ma un “volgo disperso”; e l’esortazione ai Latini  (v. 31-66) a non aspettarsi la liberazione dai Franchi ( è implicitamente agli Italiani ad affidarsi alle proprie forze per realizzare l’unità d’Italia).

  • Metrica: Strofe di sei dodecasillabi, il terzo e il sesto tronchi.
  • Schema delle rime: AABCCB.

Parafrasi

Dalle corti ricoperte di muschio, dalle piazze in rovina, dai boschi, dalle fucine rumorose e infuocate, dai campi bagnati dal sudore dei servi, un popolo sparso di scatto si risveglia e tende l’orecchio, alza la testa scosso da un nuovo crescente rumore.
Dagli sguardi perplessi, dai volti paurosi traspare la fiera virtù degli avi, come un raggio di sole tra le nuvole:
negli sguardi e nei volti confusi e dubbiosi si mescolano e si scontrano le sofferenze subite con il debole orgoglio del tempo passato.
Si raduna avida si disperde paurosa per strade tortuose con passo incerto, e fra timore e desiderio ora avanza, ora si ferma e scruta e guarda scoraggiata e confusa la folla sparsa dei signori crudeli che fugge dalle spade e non si ferma.
Li vede ansimanti, come belve impaurite che per paura drizzano le folte criniere rosse cercando il nascondiglio della tana e qui le donne atere, riposta la solita aria minacciosa, e pallide in volto guardano pensose i figli pensosi.
Addosso ai fuggitivi arrivano i guerrieri con spade avide e come cani sciolti, correndo e cercando a sinistra e a destra: il popolo li vede e rapito da una contentezza ignota con facile speranza anticipa l’evento e sogna la fine della schiavitù.
Ascoltate! Quei forti che sul campo di battaglia impediscono la fuga ai vostri dominatori sono venuti da lontano per sentieri tortuosi: hanno lasciato nelle stanze delle case native le donne addolorate  che li salutavano e pregavano e davano consigli interrotte dal pianto: hanno calzato gli elmi battuti, hanno messo le selle ai cavalli bruni e hanno percorso il ponte che ha risuonato cupo, in grandi gruppi passarono di terra in terra cantando allegre canzoni di guerra ma portando nel cuore i ricordi dei cari castelli.


Andarono per valli sassose per dirupi scoscesi vegliarono armati nelle notti gelide ricordando i fiduciosi colloqui d’amore.
Sopportarono i pericoli nascosti di soste forzate, le corse per greti mai attraversati, il rigido comando militare e la fame.
Videro le lance scagliate contro i petti vicino agli scudi e rasente agli elmetti , udirono il fischio delle frecce che volavano.
E il premio promesso e sperato da quei soldati, sarebbe, o illusi, capovolgere le sorti e porre fine alle sofferenze di un popolo straniero?
Tornate alle vostre gloriose rovine, al mite lavoro nelle infuocate fucine ai campi bagnati dal vostro sudore di schiavi.
I vincitori si mescolano con i vinti e con i nuovi signori rimane la vecchia situazione.
Sia l’uno che l’altro popolo vi rendono schiavi e si dividono i servi e gli animali e giacciono insieme sui campi insanguinati di un popolo sperso senza nome.

Coro atto 4: analisi

Il coro dell'atto quarto segue la scena del delirio di Ermengarda, riparatasi a Monza in covento.
Vi si compiange la sorte terrena della principessa, divisa fra abbandono religioso alla pace cristiana e “l’empia” forza risorgente dell’amore e dei ricordi terreni; ma anche se ne annuncia la salvezza eterna: il suo sacrificio, che la fa morire vinta e oppressa, è anche un mezzo attraverso il cui la  “provvida sventura” la riscatta dal destino che spetta invece al popolo degli oppressori a cui ella appartiene.

Dopo due strofe iniziali che rappresentano la morte del personaggio attraverso una voce narrante oggettiva, a parlare è un soggetto indeterminato(forse suore, forse l’io lirico di Manzoni) che si rivolge alla donna invitandola a sgomberare la mente dai “terrestri ardori” dell’amore e ad abbandonarsi a Dio. Nella prima parte sino al v.60 predomina il tema dei ricordi (Ermengarda evoca i giorni felici dell’amore); nella seconda prevale il motivo religioso della “provvida sventura”.

Metrica: Strofe di sei settenari, sdruccioli il primo, il terzo e il quinto; piani il secondo e il quarto; tronco l’ultimo. Schema delle rime: ABCBDE, FGHGIE.

Parafrasi

Con le trecce morbide sparse sul petto ansante con le mani rilassate e il volto pallido bagnato di sudore della morte, con lo sguardo tremante rivolto al cielo giace la pia. Cessa il pianto e tutti intonano una preghiera ed una mano lieve appoggiata sulla fronte gelida chiude per l’ultima volta gli occhi azzurri. Libera o gentile, la mente dalle passioni terrestri, alza a Dio un puro pensiero e muori, che la morte ti libera dalle sofferenze.

Così della infelice, il destino era immutabile e chiedere di dimenticare le era negato, salire al cielo santificata dalla sua sofferenza. Ahi! Nelle notti insonni nei chiostri solitari con i canti delle suore davanti agli altari, ritornavi sempre col pensiero ai giorni non dimenticati quando ancora amata inconsapevole di  un destino avverso, inebriata, respiravi l’aria gioiosa delle terre di Francia inviata dalle spose dei Franchi, quando da un alto colle con i biondi capelli ingioiellati, vedevi a valle correre impegnato nella caccia e chinato tenendo le redini del cavallo, il re coni lunghi capelli.

E dietro di lui la furia dei cavalli sbuffanti e i carri ansimanti che si spostavano velocemente e dai cespugli spinosi, frugati prima, usciva l’irsuto cinghiale che colpito dalla freccia rigava di sangue la terra intorno. La tenera donna volgeva immediatamente il volto verso le donzelle, pallida di paura.

O Mosa tortuosa! Oh tiepidi bagni di Aquisgrana, dove tolta l’armatura spaventosa il re guerriero scendeva a lavarsi del nobile sudore. Come la rugiada rinfresca gli stecchi rinsecchiti del cespuglio di erba inaridita, e risorgono verdi all’alba, così una parola amica rinfresca il pensiero, che la forza dell’amore affatica e il cuore si rivolge alle gioie di un altro amore.

E come il sole che infuocato risorge, sale e con il suo incessante calore arde nuovamente gli steli appena risorti , così velocemente dalla breve dimenticanza, l’amore assale l’anima impaurita e le immagini distolte richiama al solito dolore.

Libera, o nobile dell’animo angosciato le passioni terrene e offri un puro pensiero a Dio, e muori: nel suolo che deve ricoprire la tua giovane spoglia, sono sepolte altre infelici che il dolore consumò, private dai mariti a causa delle spade nemiche, e vergini inutilmente fidanzate, e madri che videro i loro figli impallidire trafitti.

Tu che sei discesa dalla cattiva progenie degli oppressori, forti solo perché numerosi e che conoscevano solo la legge del sangue e dell’offesa e si glorificavano di non aver pietà, a te la provvidenziale sventura ti collocò tra gli oppressi: muori rimpianta e tranquilla e scendi a riposare fra di loro: e nessuno insulterà le tue spoglie incolpevoli.

Muori e il tuo volto senza vita ritrovi la pace come era quando non prevedevi un futuro ingannevole e il tuo volto era dipinto da dolci pensieri vergini. Così dalle nuvole aperte si libera il sole al tramonto, e dietro la montagna arrossa l’orizzonte tremolante, e al contadino è buon augurio per un giorno più sereno.

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