Morte di Didone: parafrasi della maledizione a Enea

Morte di Didone e maledizione a Enea. Come Virgilio ha raccontato la morte di Didone nel IV libro dell'Eneide. Parafrasi

Morte di Didone: parafrasi della maledizione a Enea
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MORTE DI DIDONE

Didone abbandonata dopo la fuga di Enea
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Virgilio racconta la triste storia dell’amore tra Enea e la regina Didone nel Libro IV dell’Eneide. Si tratta di una storia molto importante e più volte ripresa anche dagli autori successivi a Virgilio: la regina, abbandonata da Enea, che riparte in gran segreto dopo la loro unione, maledice l'eroe e la sua stirpe, dopodiché si uccide.

In questo articolo raccogliamo la parafrasi della parte del Libro IV che racconta la sua storia.

ENEIDE, LIBRO IV: PARAFRASI

Enea, spaventato dalla improvvisa apparizione,
si sveglia e incita i compagni:
“Uomini, svegliatevi subito e sedetevi ai banchi dei remi;
veloci sciogliete le vele.
Ecco il dio mandato dall’alto del cielo ci sollecita
Ad accelerare la fuga e a tagliare le corde.
Oh dio santo, chiunque tu sia, ti seguiamo e, obbediamo,
di nuovo all’ordine.
Assistici e aiutaci, e guida le stelle favorevoli nel cielo”.
Disse, e velocemente strappò la spada dalla guaina,
e con la spada taglia gli ormeggi.
Una stessa forza possiede tutti.
Afferrano, corrono, lasciano la riva; l’acqua scompare al disotto
delle navi, con forza rovesciano le schiume e spazzano le scure onde.
E già l’aurora, lasciando il letto color oro di Titone,
cospargeva la terra di nuova luce.
La regina, non appena vide biancheggiare la luce
dall’alto della rocca, e la flotta procede a vele allineate,
e scorsi i porti e le rive vuote, privi di equipaggi,
percuotendo il petto tre o quattro volte con la mano,
strappandosi le chiome bionde esclamò:
“Oh Giove, lo straniero se ne andrà lasciando in questo modo il mio regno?
I miei, non strapperanno le navi dai cantieri,
non accorreranno da tutte le città, non
prenderanno le armi?
Andate, portate veloci il fuoco, forzate sui remi!
Che dico? Dove sono? Che follia mi sconvolge la mente?
Infelice Didone! Adesso ti toccano le malvage azioni?
Prima dovevano, quando concedevi ad Enea condividere il tuo potere!
Ecco la lealtà di chi dice che porti con se
I patrii Penati, e ha portato in spalle il padre
stremato dagli anni!
Non potevo sbranarne il corpo e buttarlo nel mare?
E uccidere con la spada i compagni e il figlio Ascanio,
e darlo da mangiare al padre?
Ma la lotta era incerta! e lo fosse stata!
Chi mai, morente, dovevo temere?
Avessi portato le fiaccole, nel campo, e riempito
I ponti delle navi di fuoco, ucciso il figlio
E il padre e la stirpe, gettata da me stessa sul rogo!
Oh sole, che con la luce illumini tutte le opere della terra,
e, Giunone, complice e autrice che dei miei dolori.
Ecate, invocata per le città ululando nelle notturne strade,
e Dire vendicatrici, e dei della morente Giunone,
ascoltate quel che vi dico, punite i malvagi con questa
potenza, e ascoltate le mie preghiere.

DIDONE, MALEDIZIONE

Se l’infame deve raggiungere il porto e approdare alla terra,
e questo richiede Giove, l’esito del destini resta immutato:
ma travagliato dalle armi e dalla guerra di un popolo audace,
bandito dalle terre, allontanato da Iulo, chieda aiuto,
e vede la morte dei suoi, e dovendo sottomettersi
alle leggi di una pace iniqua non goda il regno e il
dolce lume: ma muoia prima dell’ora, non sepolto tra la sabbia.


Vi prego di questo, e col sangue pronuncio queste ultime parole.
E voi, oh Cartaginesi, tormentate la sua stirpe con odio, e
tutta la razza futura e offrite alle nostre ceneri un simile dono.
Tra i popoli non vi sia né amore né patto.
E sorgi, delle mie ossa, vendicatore
e perseguita con la spada e con il fuoco i Greci
ora, in futuro e quando se ne presenteranno le forze”.
Disse questo, e volgeva l’animo ad ogni pensiero,
cercando d’infrangere l’odiata luce.
Allora brevemente parlò a Barce, nutrice di Sicheo.
Infatti in un’urna nera c’erano le ceneri della sua nutrice.
“Cara nutrice, chiama una sorella Anna,
di che si affretti a cospargere il corpo con acqua viva,
e porti con se le vittime e le offerte; e tu fascia le
tempie con la benda sacra.
Penso di compiere sacrifici intrapresi ritualmente e
disposti a Giove, di porre fine alle pene e di
bruciare sul rogo il ritratto di Enea”.
Disse. Quella affretta il passo.

Ma Didone, spaventata e agitata dalla ferocia dei suoi proposti,
volgendo lo sguardo pieno di rancore, con le guance
cosparse di chiazze rossastre, e pallida per la futura morte,
irrompe nelle stanze più interne, furiosa sale gli alti scalini,
e sguaina la spada regalata da Enea, dono non richiesto a questo uso.
Qui, quando vide le vesti troiane, e il noto giaciglio, trattenendo
un po’ le lacrime, si adagiò sul letto e pronunciò le ultime parole,
“Dolci spoglie, fin quando il Dio e il fato permettevano
Accogliete quest’anno e liberatemi da queste pene.
Ho vissuto e percorso la via che la sorte aveva assegnato,
e ora la mia gloriosa ombra andrà sotto la terra.
Ho fondato una splendida città ho veduto mura costruite da me,
vendicato la sposo, punito il fratello nemico; felice, troppo felice,
se solo le navi troiane non avessero mai toccato le nostre rive!”.
Disse e premendo le labbra sul letto: “Moriremo invendicate, una
Moriamo”. Esclamò: “Desidero discendere tra le onde così
il troiano spietato vede il fuoco del rogo dall’alto mare, e con se,
porti la maledizione della mia morte”.
Disse; e fra tali parole le ancelle le vedono buttarsi
sulla spada, la spada schiumante e le mani bagnate di sangue.
Negli alti atri vanno le grida; la fama imperversa nelle strade.
Le case fremono di lamenti, gemiti, di urla; il cielo risuona di un gran pianto.
Come se, penetrati i nemici, precipiti Cartagine e Tiro, e fiamme si
propaghino per i tetti degli uomini e i templi degli Dei.
La sorella udì, senza fiato e spaventata, nell’angoscia corsa,
ferendosi il volto con le unghie e il petto con i pugni,
si getta fra la folla e per nome invoca la morente:
“Questo era sorella? Volevi ingannarmi?
Il rogo, le fiamme e gli altari mi preparavano a questo?
Non hai voluto la sorella compagna nella morte?
Se mi avessi chiamata a uno stesso destino,
un momento e uno stesso dolore avrebbe rapito entrambe
con la spada.

Ho innalzato il fuoco con queste mani, ho invocato
gli dei patrii, per mancare alla crudele morte?
Hai ucciso me e te, sorella, il popolo, i padri Sidoni e la tua città
Fate che io curi le ferite,
e se erra ancora un estremo alito, lo colga con le labbra”.
Detto questo era sceso sugli altri gradini, e con un gemito stringeva il seno alla sorella
morente, e puliva con la veste il nero sangue.
Ella, sulla via della morte, tentava di aprire gli occhi, di nuovo
morì: stringe la ferita del petto.
Tre volte appoggiandosi sul gomito tentò di sollevarsi;
tre volte si rovesciò sul giaciglio, e con gli occhi morenti
cercò nel cielo la luce e stentò a trovarla.
Allora Giunone, compiangendo il lungo dolore,
E la difficile morte, mandò dall’olimpo Iride
che sciogliesse la lottante anime e le strette.
Poiché non moriva per destino o per morte sicura,
ma sventurata prima della morte, bruciato da improvvisa follia
Prosperina non aveva ancora strappato
i capelli biondi, né aveva dato l’anima all’oltretomba.
Iride umida con crocee penne,
nel cielo, traendo mille colori dal sole,
discese e le si fermò sul capo: “Questo, avendo ricevuto quest’ordine, reco
sacro a Plutone, e con la mando destra strappa i capelli biondi: d’un tratto
tutto il calore svanì e la vita dileguò nei venti.

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