Eneide, libro IV (vv.68-89)
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Principio delubra adeunt pacemque per arasexquirunt; mactant lectas de more bidentislegiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo, Analisi testuale del libro IV dell'Eneide (vv.68-89) Uritur infelix Dido totaque vagatururbe furens, qualis coniecta cerva sagitta,quam procul incautam nemora inter Cresia fixit pastor agens telis liquitque volatile ferrumnescius: illa fuga silvas saltusque peragratDictaeos, haeret lateri letalis harundo.Nunc media Aenean secum per moenia ducitSidoniasque ostentat opes urbemque paratam: incipit effari mediaque in voce resistit.Nunc eadem labente die convivia quaeritIliacosque iterum demens audire laboresexposcit pendetque iterum narrantis ab ore.Post ubi digressi, lumenque obscura vicissim luna premit suadentque cadentia sidera somnos,sola domo maeret vacua stratisque relictis incubat: illum absens absentem auditque videtque,aut gremio Ascanium, genitoris imagine capta,detinet, infandum si fallere possit amorem.
Non coeptae adsurgunt turres, non arma iuventusexercet portusve aut propugnacula bellotuta parant: pendent opera interrupta minaequemurorum ingentes aequataque machina caelo. Arde l'infelice Didone e vaga furiosa per tutta la città, come una cerva colpita da una freccia, che incauta un pastore tra i boschi di Creta di lontano ha ferito, inseguendola con i dardi e ignaro ha lasciato [nella ferita] il ferro alato (la freccia): quella in fuga attraversa le selve e le macchie del Dicte, e la freccia letale è infitta nel fianco. Ora conduce con sé Enea tra le mura e ostenta (mostra vantando) le ricchezze di Sidone e la città pronta (a riceverlo): comincia a parlare e si ferma a metà nel discorso. Ora sul finire del giorno chiede gli stessi banchetti e folle domanda di ascoltare di nuovo le pene di Troia e pende nuovamente dalle labbra del narratore. Poi quando si allontanarono e l'oscura Luna a sua volta nasconde la sua luce e le stelle che tramontano invitano al sonno, sola si affligge nella casa vuota e si stende sul giaciglio abbandonato (da Enea): lontana ode e vede lui lontano, o tiene in grembo Ascanio, rapita dall'immagine del padre, (e cerca) se può ingannare l'indicibile amore. Non si alzano le torri incominciate, la gioventù non si esercita nelle armi e non preparano il porto o difese sicure per la guerra; restano interrotte le opere e le enormi minacce delle mura e le impalcature che toccano il cielo. Nel passo, tratto dal quarto libro dell'Eneide, Virgilio ha impostato con grande originalità la narrazione della passione di Didone, la quale, colpita profondamente dalle parole del troiano Enea, appare dominata dal sentimento d'amore. Questo passo è interamente dominato dal tema dell'amore folle della regina, poiché la induce ad assumere comportamenti fuori dalla norma. Questo amore, provocato dalle frecce di Cupido, per volere della dea Venere che così vuole proteggere il figlio Enea, viene descritto, per mezzo di una similitudine (vv.68-73), come una malattia incontrollabile, una fiamma che arde in Didone,