Le Signorie in Italia: riassunto

Dalla crisi della civiltà comunale alla nascita delle Signorie in Italia. Cosa sono le signorie e riassunto degli eventi principali

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Le Signorie in Italia: riassunto

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Agli esordi delle Signorie. Dopo un lungo periodo di crescita economica e culturale, a partire dalla metà del XIII secolo la civiltà comunale fiorita in Italia entrò in una crisi irreversibile, causata in gran parte dall’incapacità delle istituzioni municipali di allargare le loro basi politiche e di accogliere le istanze di quelli strati sociali più modesti che rivendicavano il diritto di partecipare al governo cittadino.

Nel corso del Duecento, infatti, l’evoluzione degli ordinamenti comunali in senso “popolare” aveva avvantaggiato soltanto i nuclei più facoltosi e intraprendenti della borghesia, i quali, dopo aver ottenuto il controllo politico sulle città al prezzo di rovinose lotte, si erano opposti all’acquisizione del medesimo diritto da parte dei ceti meno abbienti.

Una volta giunto al potere, il cosiddetto popolo grasso si trovò a contrastare non solo il popolo minuto, che rivendicava un ruolo nella vita politica, ma anche quelle famiglie di nobili (magnati) che difendevano i propri privilegi e che continuavano ad essere presenti nelle magistrature comunali. Peraltro, le differenze fra il ceto nobiliare e il popolo grasso erano ormai più di nome che di fatto.

Perciò, nel corso del Trecento, le lotte intestine finirono per divenire degli scontri tra diverse famiglie all’interno della stessa élite. A questo genere di contese venivano aggiungendosi le rivendicazioni dei salariati e dei manovali.

Per fronteggiare gli aspri conflitti sociali che laceravano ormai senza tregua la compagine comunale, in alcune città le classi dominanti scelsero di affidare il governo a un unico signore, che esercitasse i suoi poteri non per un solo anno, come avveniva per i podestà, ma finché si fosse protratta la situazione di emergenza.

Nella seconda metà del Duecento iniziò dunque ad affermarsi una nuova forma di governo, la Signoria. L’avvento di un signore, detentore di un potere pressoché assoluto, poteva avvenire sia in seguito a un generale consenso che costui si era procurato in vario modo, ma di solito per meriti militari, sia attraverso un’azione di forza con la quale un personaggio abile e spregiudicato si imponeva sulla collettività. Durante il governo signorile le magistrature comunali continuarono in numerosi casi a esistere e funzionare.

Per lungo tempo infatti il signore riceveva da parte delle istituzioni comunali una sorta di delega della loro autorità.

La nascita delle prime Signorie risale alla seconda metà del XIII secolo. A Ferrara il capo della fazione guelfa, Obizzo d’Este, fu proclamato nel 1264 “perpetuo signore” della città. In Toscana le prime manifestazioni del regime signorile apparvero sul finire del XIII secolo a Lucca, con i Malaspina. Anche a Pisa, dopo la sconfitta subita nella battaglia della Meloria contro Genova (1284), si costituì una Signoria; il primo signore fu Uguccione della Faggiuola (1314-1316), poi dai conti di Donoratico.

A Firenze invece la Signoria fece la sua comparsa solo nel XV secolo, quando si impose la famiglia Medici.

Il sopravvento di una singola persona e di una famiglia sulle magistrature collettive del Comune o sulle Signorie vicine suscitò non di rado aspre contese in quanto altri casati non erano affatto disposti a farsi da parte.

Il ducato di Milano e le mire espansionistiche dei Visconti

All’inizio del XIII secolo Milano godeva di una notevole prosperità economica: posta allo snodo delle principali vie di comunicazione che collegavano i porti del Mediterraneo ai grandi mercati del Nord Europa, la città lombarda doveva la sua ricchezza non solo allo sviluppo dei traffici commerciali e alla presenza di floride industrie tessili e metallurgiche, ma anche alla propria superiorità militare, che aveva fatto valere sin dall’epoca del Barbarossa e che le aveva consentito di imporsi definitivamente sui Comuni vicini.

Al rafforzamento dell’egemonia milanese nell’area padana, e al crescente e sempre più diffuso benessere dei suoi cittadini, era corrisposto un maggiore peso politico dei ceti popolari che avevano iniziato a contrastare lo strapotere dei nobili e dei ricchi mercanti.

Una parte del popolo minuto aveva costituito un’associazione privata chiamata Credenza di sant’Ambrogio (il termine credentia, che significava “segreto”, indicava a Milano la segreteria comunale, votata al segreto d’ufficio). Gli interessi dei populares più facoltosi e della piccola nobiltà erano invece rappresentati da una seconda associazione, che prese il nome di Motta (probabilmente dal termine germanico mot, ovvero “adunanza”).

Queste due consorterie, entrambe dotate di una milizia armata e di proprie istituzioni, in un primo tempo avevano fatto causa comune contro i privilegi dei ceti dominanti; poi i loro interessi si erano andati sempre di più identificando con quelli di alcune singole famiglie.

Nel corso del XIII secolo s’imposero progressivamente i guelfi Della Torre o Torriani, legati alla Credenza di sant’Ambrogio, e il cui dominio fu contrastato dalla famiglia ghibellina dei Visconti, legata ai magnati della Motta. Dopo sanguinose lotte protrattesi per circa trent’anni, il vescovo Ottone Visconti (1207-1295) divenne il nuovo signore della città. In seguito il pronipote Matteo (1311-1322) ebbe modo di consolidare il dominio della casata a Milano. Negli anni successivi i Visconti intrapresero una politica espansionistica. Si venne così a creare un vasto dominio milanese, che alla fine del Trecento andava dal Piemonte all’Emilia, fino alla Svizzera, con Bellinzona e Locarno. La potenza dei Visconti giunse al suo culmine con Gian Galeazzo (1378-1402), che allargò le sue mire al Veneto e alla Toscana, non celando inoltre la sua ambizione di creare nell’Italia centro-settentrionale un grande Stato sotto la sua autorità.

I suoi successi furono travolgenti: egli sottomise Verona, Vicenza e Padova, quindi si assicurò uno status di piena legittimazione politica acquistando per centomila fiorini il titolo ereditario di duca di Milano dall’imperatore Venceslao (1395) e procurandosi l’appoggio del re di Francia Giovanni II mediante il matrimonio con la figlia di questi.

La signoria si trasformò così in un principato e il titolo di duca divenne trasmissibile ai figli di Gian Galeazzo.

A quel punto i Visconti presero di mira la Toscana e in particolare Firenze, che negli anni precedenti aveva tentato inutilmente di contrastare l’espansione della signoria ambrosiana attraverso la creazione di leghe con altre città italiane. Nel giro di pochissimi anni, dal 1399 al 1402, Gian Galeazzo sottomise Lucca, Pisa e Siena, mentre in Umbria si impadronì di Perugia, Spoleto e Assisi. Nel 1402 la sorte della stessa Firenze, circondata dalle truppe milanesi, sembrava segnata, quando il duca di Milano morì, colpito dalla peste nel castello di Melegnano, dove si era rifugiato per sfuggire al contagio.

Alla repentina scomparsa del duca si rivelò in pieno l’intrinseca debolezza del sistema signorile da lui creato: dato che il ducato era considerato patrimonio personale ed ereditario della famiglia, i vasti domini conquistati vennero suddivisi fra i suoi tre figli, frantumandone di fatto l’unità politica e la potenza economica e militare.

Il duello fra Venezia e Genova per il primato sul mare

Unica a conservare, e non solo formalmente, la struttura repubblicana, Venezia alla fine del XIII secolo aveva neutralizzato ogni velleità di ascesa politica dei “nuovi ricchi” con la serrata del Maggior Consiglio (1297), un provvedimento con cui la carica di membro del Maggior Consiglio – la massima istituzione cittadina che aveva fra l’altro il compito di eleggere il doge – divenne ereditaria per tutti coloro che ne avevano fatto parte negli ultimi quattro anni. La “serrata”, ovvero la “chiusura”, conferì il potere a poco più di trecento famiglie dell’aristocrazia mercantile. In tal modo in città si era consolidato un governo oligarchico, l’esatto contrario di quanto avveniva in altri Comuni italiani con le cosiddette legislazioni “antimagnatizie”. In quegli stessi anni la contesa con Genova per il controllo delle rotte e delle colonie commerciali nel Mediterraneo orientale era giunta a un punto cruciale: dopo una lunga serie di reciproci attacchi pirateschi, nel 1298 le due potenti flotte si erano infatti affrontate presso l’isola dalmata di Curzola. Nonostante la sconfitta, Venezia si era ripresa nel giro di poco tempo, preparandosi a muovere guerra ancora una volta contro la rivale.

Genova non aveva saputo trarre vantaggio da quella vittoria a causa delle lotte che opponevano fra loro le più grandi famiglie aristocratiche. Per prevalere sulle rivali ciascuna delle fazioni cittadine chiese sostegno militare a forze esterne. Il risultato fu che Genova venne devastata e posta sotto assedio dai Visconti, per cadere poi, fra il 1318 e il 1334, sotto il dominio di Napoli. Solo nel 1339 la città ligure si dotò nuovamente di un governo autonomo.

Nel 1377 le ostilità ripresero in maniera così aspra ed estesa da coinvolgere altre potenze nella cosiddetta Guerra di Chioggia (1377-1381). La posta in gioco era il possesso di Cipro e Tenedo, due isole situate in posizioni strategiche per il controllo dei traffici orientali.

La seconda, in particolare, in quanto a ridosso dello stretto dei Dardanelli, dominava l’ingresso al Mar Nero e a quel bacino commerciale che fino ad allora era stato sotto il diretto controllo genovese: se i Veneziani avessero occupato l’isola, ne avrebbero chiuso l’accesso ai loro avversari. A fianco delle due rivali si schierarono quanti speravano di trarre profitto da questa ulteriore contesa o avevano conti da regolare con una delle due repubbliche marinare: mentre i Visconti sostennero Venezia, il re d’Ungheria – che aspirava a uno sbocco sull’Adriatico – offrì il suo appoggio a Genova. 

Nel 1380 la flotta genovese rimase bloccata presso Chioggia senza possibilità di manovra. Dopo la pace di Torino (1381) entrambe le potenze uscirono dalla guerra stremate; ma, mentre Genova, agitata dai continui dissidi fra le fazioni cittadine, avrebbe impiegato più tempo a riprendersi, Venezia, nonostante gli enormi sforzi economici e bellici che aveva affrontato, riuscì a mantenere una posizione preminente nel Mediterraneo. Con la fine della Guerra di Chioggia, inoltre, Venezia intraprese una politica di sistematica espansione nell’entroterra, motivata sia dalla progressiva avanzata dei Turchi Ottomani nel Mediterraneo orientale, che iniziava a minacciare la sua libertà di commercio in quell’area, sia dalla necessità di difendersi di fronte al pericoloso allargamento territoriale della Signoria viscontea. Di conseguenza la politica economica di Venezia iniziò a diversificarsi, non limitandosi più soltanto alle attività commerciali, ma badando anche a potenziare il settore agricolo.

Firenze dal Comune alla Signoria

Nonostante le violente lotte interne che la agitarono fra XIII e XIV secolo, Firenze riuscì a mantenere le proprie istituzioni comunali più a lungo di qualsiasi altra città italiana. A partire dal Duecento la città toscana era divenuta uno dei più importanti centri manifatturieri d’Europa, specializzato nella produzione di ricercati panni di lana. La fioritura economica aveva consentito una maggiore partecipazione al governo della città dei diversi gruppi sociali, favorendo in particolare il popolo grasso. Dopo aver definitivamente sconfitto la fazione ghibellina nel 1266, Firenze si trovava a essere la roccaforte guelfa d’Italia e i rapporti privilegiati con Roma avevano favorito le grandi famiglie di banchieri, come i Bardi e i Peruzzi, ai quali fra l’altro era stata affidata la gestione dei traffici finanziari che ruotavano attorno alla corte pontificia. Nel 1282, attraverso una riforma costituzionale, era stato inoltre creato il Priorato delle Arti, un organo supremo formato da sei magistrati, i Priori, scelti fra le Arti maggiori. Si trattava di un’istituzione che rappresentava gli interessi dei grandi mercanti della lana e della seta, dei finanzieri e dei banchieri. Mentre il popolo minuto, si trovava tagliato fuori dal governo delle città, i magnati continuavano a esercitare il potere. Le rivendicazione contro i magnati trovarono un convinto sostenitore in Giano della Bella, un aristocratico fiorentino divenuto per ragioni politiche favorevole al “popolo” che, una volta eletto priore, promulgò nel 1293 i cosiddetti Ordinamenti di Giustizia.

 

Il provvedimento condizionava l’accesso alle cariche pubbliche all’iscrizione a una delle Arti e in questo modo i magnati, che non erano iscritti a nessuna delle corporazioni, furono del tutto esclusi dalle magistrature comunali. Ma in seguito Giano della Bella venne esiliato e la riforma emendata: per poter accedere al governo si stabilì che fosse sufficiente anche la sola iscrizione a un’Arte, senza l’esercizio effettivo della professione. In tal modo i magnati, inserendosi formalmente nel sistema delle corporazioni, continuarono a dominare saldamente la scena politica della città. Fu questo anche il caso di Dante Alighieri che si iscrisse alla corporazione dei Medici e degli Speziali. Nuove rivalità vennero ben presto insorgendo fra le famiglie magnatizie, provocando una spaccatura all’interno del guelfismo fiorentino. Alcune, infatti, coalizzate intorno alla famiglia dei Donati e alla fazione dei Neri, miravano a una restaurazione integrale del potere aristocratico. Altre, invece, erano favorevoli a una maggiore partecipazione politica della ricca borghesia cittadina e avevano quale loro punto di riferimento la famiglia dei Cerchi e la fazione dei Bianchi. Intervenne anche papa Bonifacio VIII che appoggiò i Neri e giunse a imporre a Firenze quale mediatore e pacificatore il principe Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo il Bello. Costui mandò in esilio i maggiori esponenti della fazione dei Bianchi, fra i quali lo stesso Dante (1302).

Dopo la partenza del principe francese, i Neri aprirono di nuovo le porte alla grande borghesia. Continuarono invece a essere completamente ignorate da qualsiasi gruppo di potere le rivendicazioni degli artigiani minori. Era venuta meno qualsiasi possibilità di ascesa sociale e si andavano aggravando le disparità politiche tra le diverse componenti della città. A fare le spese di questo stato di cose erano soprattutto i lavoratori dipendenti, privi di qualsiasi diritto non solo all’interno degli organismi comunali, ma anche nelle associazioni corporative. Tra di essi i più numerosi e agguerriti erano i salariati dell’Arte della lana, i cosiddetti Ciompi, addetti alla cardatura e alla pettinatura. Mal pagati e sottoposti a orari di lavoro durissimi, costoro si ribellarono una prima volta nel 1345 per ottenere l’autorizzazione a costituirsi in una corporazione autonoma e una seconda volta nel 1378 scatenando quella sollevazione nota come “tumulto dei Ciompi”. Gli insorti, che rivendicavano libertà di associazione e il diritto per i loro rappresentanti di partecipare al governo della città, riuscirono sulle prime a imporsi e ottennero la creazione di tre nuove corporazioni (dei Tintori, dei Farsettai, dei Ciompi), dette “Arti del popolo di Dio”. Tuttavia la grande borghesia riprese ben presto il sopravvento e le corporazioni dei Ciompi nel giro di due soli mesi vennero abolite. Per scongiurare nuove ribellioni da parte dei ceti più poveri fu restaurato un governo oligarchico, che fra il 1382 e il 1434 fece capo alla ricca famiglia degli Albizi. 

In questo periodo Firenze riuscì a contrastare con successo le minacce espansionistiche di Gian Galeazzo Visconti.

Dopo aver conquistato Pisa e acquisito il controllo su Livorno, la città giunse a controllare le vie terrestri e i porti toscani di cui si avvaleva per esportare più agevolmente i proprio prodotti. Proprio nei primi decenni del XV secolo, la casata degli Albizi si trovò ad affrontare l’opposizione interna dei Medici, una famiglia di banchieri provenienti dal contado decisa a scalzare la vecchia classe magnatizia. Dopo alcuni scontri in cui i Medici parvero avere la peggio, il capo famiglia Cosimo il Vecchio riuscì ad acquisire l’unanime benestare del Comune e a decretare l’esilio dei suoi avversari (1434). A Firenze venne così delineandosi un regime signorile, anche se rimasero formalmente inalterati gli ordinamenti comunali: Cosimo il Vecchio, infatti, non assunse mai il titolo di signore ma controllò saldamente il governo cittadino grazie alla presenza di esponenti di sua fiducia in tutte le principali magistrature e si garantì il consenso del popolo anche grazie alla sua attività di benefattore e di mecenate.

Il Meridione fra Angioini e Aragonesi

Il Regno di Napoli, controllato sin dal 1266 dagli Angioini, rappresentava lo stato più vasto e apparentemente più solido della penisola. I sovrani angioini, infatti, in quanto vassalli della Santa Sede, avevano assunto il ruolo di guida del partito guelfo. Sotto il regno di Roberto d’Angiò (1309-1343), Napoli conobbe un periodo di grande vivacità culturale: Roberto ospitò alla sua corte importanti artisti come Giotto e godette della stima di letterati come Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Non pochi erano tuttavia i problemi che affliggevano il regno, primo fra tutti lo strapotere dei grandi feudatari, i baroni. D’altra parte Roberto d’Angiò non cercò di soffocare le tendenze centrifughe della nobiltà feudale, ma al contrario continuò a elargire privilegi e concessioni che finirono così per spogliarlo sempre più delle sue prerogative regali. D’altra parte, i deboli tentativi da lui esperiti per rafforzare gli organi centrali dello stato e rammodernare l’apparato burocratico si scontrarono con le scarse disponibilità finanziarie della Corona, sempre più limitate a causa delle ingenti spese militari affrontate per riconquistare la Sicilia, in mano agli Aragonesi. Alla cronica mancanza di denaro si cercò di porre rimedio con diversi mezzi, ma in particolare con la richiesta di prestiti a mercanti e banchieri, soprattutto fiorentini, come i Bardi e i Peruzzi. La maggiore parte delle attività economiche e finanziarie finì così nelle mani di forestieri.

Quando poi queste compagnie fallirono, nel 1342, vennero meno improvvisamente i finanziamenti alla Corona, con gravissime conseguenze. Dopo la morte di Roberto d’Angiò la fragilità intrinseca del regno si manifestò in tutta la sua evidenza e si scatenarono aspri conflitti politici e sociali che provocarono una vera e propria crisi dinastica.

Intanto i re aragonesi erano riusciti in Sicilia, sin dall’inizio del Trecento, a rafforzare il loro potere. Per tutto il secolo i sovrani aragonesi dovettero affrontare, oltre alle frequenti spedizioni da parte degli angioini, anche le violente rivolte delle grandi famiglie feudali.

La debolezza della Corona alle prese con un’incessante conflittualità interna determinò per altro un processo di decadenza economica e sociale. Solo alla fine del XIV secolo fu possibile costituire le basi di un forte potere centrale: ciò avvenne per iniziativa degli stessi re aragonesi, che associarono la Corona di Sicilia a quella d’Aragona. Nel 1412 questa unione venne formalizzata dal re Ferdinando I e l’isola fu trasformata in un viceregno. Nel corso del XV secolo anche la Sardegna entrò a far parte della giurisdizione aragonese.

L’avventura di Cola di Rienzo e la ricostituzione dello Stato della Chiesa

Nel complesso quadro dell’Italia del Trecento, lo Stato pontificio attraversava all’inizio del secolo un periodo particolarmente tormentato. Dopo il trasferimento della curia papale ad Avignone (1309), Roma era caduta in mano alle più importanti famiglie dell’aristocrazia (gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i Caetani), in perenne lotta fra loro, mentre nel resto dei territori ecclesiastici si erano create numerose piccole signorie, come quella dei Bentivoglio a Bologna, dei Montefeltro a Urbino e dei Baglioni a Perugia. A rendere la situazione ancora più difficile si aggiunse una grave crisi economica, causata, oltre che dal clima di insicurezza che gravava sulla città, anche dall’assenza dei funzionari papali e dal minore afflusso di pellegrini. Desideroso di porre fine alle prepotenze nobiliari, nel 1343 il popolo romano aveva mandato un’ambasceria ad Avignone, per convincere il papa ad autorizzare l’insediamento di un governo repubblicano. Di questa delegazione faceva parte anche un giovane notaio di umili origini, appassionato estimatore delle istituzioni dell’antica Roma, Cola di Rienzo. Egli riuscì a ottenere l’appoggio del papa, il francese Clemente VI, che in realtà intendeva servirsi di lui per sottomettere gli esponenti dell’aristocrazia romana. Fu così che nel maggio 1347 Cola si mise a capo di una rivolta che abbatté il regime nobiliare e istituì una repubblica romana, della quale si fece nominare “tribuno”, proclamando una nuova costituzione a favore del popolo. Nella sua visione Roma avrebbe dovuto riappropriarsi della sua antica missione universale, riunendo sotto la sua autorità le città d’Italia, i sovrani, l’imperatore e il papa.

Ma appena Cola cercò di stringere alleanze con gli altri stati italiani si alienò il favore del papa; ben presto, poi, a causa dei suoi metodi di governo arbitrari e dispotici, venne abbandonato anche dalle masse. Già alla fine del 1347 fu dunque costretto a lasciare Roma; quando vi fece ritorno, nel 1354, venne ucciso durante un’insurrezione popolare.

Nel frattempo, il nuovo papa Innocenzo VI, eletto due anni prima aveva mandato nell’Urbe il cardinale Egidio Albornoz e questi aveva riportato sotto l’autorità pontificia molte delle Signorie locali che si erano formate nei territori dello Stato della Chiesa. Albornoz riuscì a trasformare il frammentato Patrimonio di San Pietro in uno Stato centralizzato. Il territorio venne diviso in sette provincie, ognuna delle quali era governata da un rettore, e molte città vennero dotate di imponenti rocche per impedire eventuali tentativi di ribellione.

Quando papa Gregorio XI, nel 1387, decise di riportare a Roma la sede pontificia, tutta l’Italia centrale, a esclusione di Firenze e di Siena e di qualche piccola enclave toscana e marchigiana, era tornata di nuovo sotto la sovranità dello Stato della Chiesa. Tuttavia, la nuova frattura avvenuta con il grande scisma e lo scompiglio causato dalla nomina di due papi vanificarono per vari decenni l’efficacia dell’azione legislativa svolta dal cardinale Albornoz.

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