La crisi del primo dopoguerra in Europa e in Italia

Crisi del primo dopoguerra in Europa e in Italia: spiegazione e sintesi degli eventi che seguirono la prima guerra mondiale

La crisi del primo dopoguerra in Europa e in Italia
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Primo dopoguerra

Cosa accadde in Italia e in Europa nel primo dopoguerra?
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Gli anni dell’immediato dopoguerra in Europa furono attraversati da una lunga crisi economica e sociale: inflazione, spese militari, riconversione dell’industria e disoccupazione aprirono un periodo di difficile assestamento. In primo luogo, era una crisi di legittimazione delle istituzioni liberali prebelliche (veniva meno il riconoscimento del popolo che durante la guerra era stato maggiormente coinvolto), l’Europa del dopo guerra era più democratica ma non era detto che questo si traducesse in un rafforzamento delle istituzioni parlamentari.

Radicalizzazione della lotta politica

Si diffusero così ideologie politiche che rifiutavano una politica basata sulla mediazione e sul compromesso come: nazionalismo, sindacalismo rivoluzionario (Sorel), il socialismo rivoluzionario.

La soluzione autoritaria

Gli esiti di questa crisi europea furono:

  • La Francia e la Gran Bretagna conservarono istituzioni liberal-democratiche trovando soluzione in stabilizzazione democratica
  • Nell’Europa mediterranea e centro orientale si sono invece affermati regimi non democratici. In particolare, in Germania ed Italia (caratterizzata da formazioni statuali recenti) le classi dirigenti hanno percorso la soluzione autoritaria.

Il paradosso italiano

La vittoria italiana suscitò le più grandi speranze, ma il dopoguerra mise anche in luce tutta la fragilità delle istituzioni liberali italiane, i limiti della classe dirigente, la separatezza tra masse popolari e stato. Le tensioni del dopoguerra sfociarono in Italia in una crisi di sistema che non produsse una variazione della classe dirigente bensì la sua caduta con l’instaurazione della dittatura.

La situazione economica nel primo dopoguerra

Pesante era il debito pubblico accumulato per finanziare la guerra, forte l’inflazione (dovuta all’eccesso di moneta circolante che provocò una svalutazione della lira) e grave la disoccupazione provocata dal ritorno degli uomini in patria, e dalla riconversione delle fabbriche da belliche a civili. Inoltre, la guerra aveva stimolato l’ammodernamento e lo sviluppo industriale (in particolare nella siderurgica, meccanica e chimica). Tale ricchezza però non si distribuì equamente, ma andò a vantaggio delle imprese e degli speculatori che, grazie ai mercati neri a tornaconto personale vennero definiti “pesci cane”.

Il biennio rosso: lotte sociali e conquiste sindacali

Le difficoltà economiche si scaricarono soprattutto su operai e contadini, nei quali la guerra aveva suscitato grandi aspettative di miglioramento economico ed emancipazione sociale. Così dal 1919 iniziarono durissime lotte sociali e sindacali (il biennio rosso del 1919-1920), i lavoratori erano guidati da Federterra, Cgl (confederazione generale del lavoro) e Cil (confederazione italiana dei lavoratori). Vi furono scioperi per aumenti salariali in fabbriche e campagne, con occupazioni di terre incolte da parte dei contadini. Il governo presieduto da Nitti (liberale riformista) ebbe un atteggiamento tollerante. Così i lavoratori ottennero i seguenti risultati:

  • Nelle fabbriche, aumenti salariali, riduzione della giornata a 8 ore (20 febbraio 1919)
  • Nelle campagne padane e pugliesi aumenti di paga e l’imponibilità di manodopera (i proprietari terrieri dovevano assumere una quantità di manodopera adeguata alle dimensioni della terra)
  • Al sud, il governo operò una parziale redistribuzione delle terre incolte, che erano state occupate.

Disagio e mobilitazione dei ceti medi

Un forte disagio attraversava anche i ceti medi. Al ceto medio appartenevano tutti coloro che durante la guerra avevano avuto ruoli di comando ed ora faticavano a reintegrarsi nella vita civile, molti non si ritrovarono ritenendo di dover essere ricompensati in maniera diversa; a queste ragioni si univa una generale avversione per il socialismo e il timore di una rivoluzione.

La questione di Fiume

L’Italia (tra i vincitori della guerra) si vide riconoscere dai trattati di pace il Trentino, Sud Tirolo(o Alto Adige), Triste ma vide contestata (soprattutto da Wilson) la sua pretesa di ottenere l’Istria, la Dalmazia, e la città di Fiume. Si parla infatti di vittoria mutilata (espressione di D’Annunzio): l’Italia, pur essendo vincitrice non aveva ottenuto ciò che aveva chiesto. Così i nazionalisti iniziarono una violenta polemica, accusando il governo di arrendevolezza nei confronti degli alleati; D’Annunzio riunì alcuni volontari, ed occupò la città di Fiume (12 settembre 1919) creando la cosiddetta reggenza del quarnaro (senza spargimento di sangue), e proclamandone l’annessione all’Italia. Il governo italiano non seppe opporsi all’atto di forza, ed in questa situazione critica, si richiese l’intervento di Giolitti, che firmerà con la Iugoslavia il trattato di Rapallo (12 novembre 1920) assegnando all’Italia l’Istria e alla Iugoslavia la Dalmazia e faceva di Fiume uno stato libero indipendente sotto la tutela della società delle nazioni; successivamente un successivo accordo dividerà lo stato di Fiume tra Italia e Iugoslavia, l’Italia ne otterrà la città.

Il 1919 fu caratterizzato da due eventi:

  • Nel gennaio la nascita del partito popolare italiano.
  • Nel novembre, le prime elezioni politiche con sistema proporzionale

La nascita del Partito Popolare

Nel gennaio del 1919 nacque quindi il partito popolare italiano, primo partito politico italiano di ispirazione cattolica, fondato dal sacerdote Sturzo. L’assenso dato dal pontefice Benedetto XV alla nascita di un partito cattolico fu motivato dalla consapevolezza che mancasse un partito di massa. Il partito popolare si presentava con un programma che ribadiva i punti fondamentali della dottrina sociale cattolica (già enunciata nella Rerum Novarum del 1891):

  • Rispetto della proprietà privata
  • Interclassismo (rifiuto della lotta di classe)
  • Necessità di mediare i conflitti fra capitale e lavoro
  • Difesa e ampliamento della piccola proprietà contadina
  • Libertà di insegnamento
  • Allargamento delle autonomie locali

Le elezioni del 1919: il successo di socialisti e cattolici

Le elezioni del novembre 1919 furono le prime a svolgersi con sistema proporzionale (che prevedeva l’attribuzione dei seggi in parlamento in proporzione ai voti ottenuti da ciascuna lista o partito). Il partito popolare italiano ottenne una grande successo (soprattutto nelle campagne: si faceva campagna elettorale principalmente nelle parrocchie) con il 20% dei voti, ma il maggior numero di seggi andò al partito socialista con il 32% dei voti, divenendo la prima forza politica in parlamento che risultava rinnovato per circa i 2/3. Per la prima volta le masse popolari godevano di una effettiva rappresentanza sociale e politica, con una coscienza più matura dei propri diritti e del proprio ruolo nella nazione.

Le divisioni nel partito socialista

All’interno del partito socialista si formarono due principali correnti:

  • I massimalisti, guidati da Serrati, puntavano all’espropriazione del potere della borghesia, con una rivoluzione socialista
  • I riformisti, guidati da Turati e Treves, non riuscirono però a imporre una linea di partecipazione del partito al governo del paese con obiettivi di tipo riformista.

L'occupazione delle fabbriche

Nel 1920 il quadro politico italiano si aggravò, la maggioranza governativa liberaldemocratica di Nitti, indebolita per i risultati elettorali, venne meno nel giugno 1920.

Al suo posto fu chiamato nuovamente al governo l’anziano Giolitti. Sul piano economico e sociale la situazione era caratterizzata da disagio dei dipendenti pubblici, lotte contadine e operaie e frequenti scioperi che portarono all’occupazione delle fabbriche. Ma lo scontro decisivo iniziò nell’agosto, quando gli industriali opposero un netto rifiuto alle rivendicazioni salariali avanzate dalla Fiom; in alcuni casi attuarono una serrata (chiusura degli stabilimenti). In risposta gli operai metalmeccanici di Milano, Torino e Genova occuparono le principali fabbriche. Nel movimento di occupazione delle fabbriche torinesi si trovava il gruppo rivoluzionario della rivista L’ordine nuovo che aveva tra i fondatori Gramsci.

La fine del biennio rosso

Agli industriali che chiedevano l’intervento della forza pubblica, Giolitti obiettò che l’impiego dell’esercito avrebbe condotto alla tragedia e che era meglio il compromesso. Infatti, in poco tempo la dirigenza massimalista del partito e quella riformista del sindacato si divisero. La lotta si concluse con un accordo tra imprenditori e sindacato. L’occupazione delle fabbriche portò alla paura di una rivoluzione e favorì l’orientamento verso una soluzione reazionaria e antipopolare della crisi italiana: situazione che sfocerà nel movimento fascista.

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