La noia in Giacomo Leopardi: approfondimento

Approfondimento sulla noia leopardiana: il concetto di noia in Giacomo Leopardi. Temi collegati: tedio, dolore, suicidio nel poeta di Recanati

La noia in Giacomo Leopardi: approfondimento
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NOIA LEOPARDIANA

Cos'è la noia per Giacomo Leopardi?
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La noia è uno dei temi attorno ai quali ruota l'intera opera leopardiana. Lo stesso concetto, tuttavia vede mutare la propria natura all'interno di una stessa opera; nel tempo la riflessione si fa sempre più complessa e se inizialmente è dolore incessante, nemico della natura, nebbia, acqua limacciosa, vuoto, nulla, più tardi verrà trasformata in malinconia classica e romantica.

LA NOIA PER LEOPARDI

Già nel gennaio 1820, con la composizione di Ad Angelo Mai Leopardi coniuga il sentito tema civile della decadenza dell'Italia con il dolore che scaturisce dalla cognizione della noia: quell'ozio, quella frivolezza di occupazioni o, meglio, di dissipazioni, quel “sentimento del nulla” che rende incapaci gli italiani della “poesia sentimentale”, “unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo” (Zib. 8 marzo 1821).

“Tanta nebbia di tedio” che incombe su questo “secol morto” (vv 4-5), una noia tetra, effetto dell'inerzia e causa essa stessa d'inerzia più grande dei moderni, il cui ozio  “turpe” (v 59) “circonda/i monumenti” (vv 43-44) disprezzando la passata grandezza e contrapponendosi ai “riposi magnanimi” (vv 54-55), gli otia, degli antichi. Lo stesso ozio dei contemporanei dà origine solo al tedio, affogando “l'Italo canto” (v 70); come specifica in una nota dello Zibaldone (26 giugno 1820), infatti, il dolore che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, affoga di più di quello che nasce dalle illusioni o da qualunque sventura della vita.

La noia è il nulla. L'ardimento dei magnanimi è visto però come rimedio a tale sentimento e Cristoforo Colombo “ligure ardita prole” ne è l'esempio. Leopardi ha occasione di celebrare nuovamente il personaggio nell'operetta “Dialogo tra Colombo e Gutierrez”, composta tra 19 e 25 ottobre 1824.

Nel brano il viaggio d'esplorazione è visto come affrancamento dalla noia, nella continua attesa speranzosa che rende l'uomo perennemente giovane. Dice Colombo “ciascuna navigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade” ma che produce gli stessi benefici e più duraturi che quello non produrrebbe. La noia porta infatti il poeta a difendere con “ortisiana” e giovanile irruenza la legittimità del suicidio, come si può leggere nel Bruto minore (dicembre 1821) e nell' Ultimo canto di Saffo (maggio 1822).

LEOPARDI E LA NOIA

Approfondisce nello Zibaldone (I, 96) che spesso annoiato dalla vita desidererebbe uccidersi: la vita umana è  però costituita di elementi discordanti, così si fa di tutto per conservarla anche nelle condizioni più tremende, quando sarebbe molto più facile metterle fine. E ancora, l'affermazione finale del Dialogo di un fisico e di un metafisico (14-19 maggio 1824) “La vita debb'esser vita, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio” risponde ad un costante convincimento leopardiano, secondo il quale un'esperienza vitale mossa ed intensa (eco di un sensismo vitalistico) è l'unico rimedio contro la noia; per lo stesso motivo elogia gli uccelli che mai sono sottoposti alla noia nel loro continuo spostarsi volando da un luogo all'altro (“Elogio degli uccelli” 29 ottobre-5 novembre 1824).

Tornerà poi sul tema del suicidio nel 1830 col Canto notturno di un pastore errante dell'Asia scrivendo: “se la vita è sventura, perché da noi si dura?”. Nel Dialogo di Plotino e Porfirio (1827) il suicidio è visto, invece, in maniera del tutto diversa, tanto che Plotino si rivolge all'interlocutore dicendo “Viviamo, Porfirio mio e confortiamoci insieme”.

Tale inversione è però è parallela allo sviluppo del concetto di noia. Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (composto tra 1 e 10 giugno 1824) la noia è, infatti, “la natura dell'aria”. Essa è indifferenza, assenza di piaceri e dispiaceri, totale assenza di passione ma che può essere a sua volta una passione acutissima, e che va a colmare i vuoti creatisi nella sostanza continua dell'anima a causa dell'allontanamento di un piacere o di un dolore.

Nel Dialogo di Plotino e Porfirio la noia è invece taedium vitae che nasce dalla vanità delle cose; tuttavia non è né vanità né inganno, ma quanto la vita degli uomini ha di sostanziale e reale. Nello Zibaldone (4043) Leopardi definisce perciò la noia come “vita pienamente sentita, provata, conosciuta” che si contrappone fortemente al concetto di piacere delineato ne La quiete dopo la tempesta come negativo in quanto “privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario” (Zib. 4074).

Il poeta approda ad una visione dialettica del sentimento umano, per cui i mali danno risalto ai beni, la sanità  si gusta  dopo la malattia e la quiete dopo la tempesta. Senza tali mali, dunque, “i beni non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia, e non essendo gustati nè sentiti come beni e piaceri...” (Zib. 7 agosto 1822). 

Dall'ottobre del 1829 all'aprile del 1830 Leopardi scrive Canto notturno di un pastore solitario. Il poeta vede ormai la vita come puro causalismo e tale consapevolezza gli provoca tedio.

È stupito, infatti, che la luna ripercorra i “sempiterni calli” (v 6) senza essere stanca ed infastidita per la propria esistenza monotona.  Al verso 104 dice il pastore: “a me la vita è male” così sembra egli abbia destino d'essere infelice senza peraltro trovare ragione alcuna della propria infelicità. In realtà il sentire la propria infelicità si rivela non come presenza di alcun “male né dolore particolare” ma come sentimento della vita, ossia come “noia”.

Analizza ancora tale concetto ai versi 122-123: “eppur nulla non bramo/ e non ho fino a qui cagione di pianto” senza potersi spiegare lo sprone del verso 119, la noia va così configurandosi come il desiderio supremo, il desiderio di felicità, “Non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere” secondo le parole del Genio familiare al Tasso.

Tornando ai versi 110-112 Leopardi definisce il tedio come il male proprio dell'uomo ed in particolare dell'uomo che più sa, che più sente il nulla della vita e dunque s'annoia.

Per questo il pastore invidia la “greggia” sua, la cui pace è negata al padrone. Ecco dunque che la noia si profila come “il più sublime dei sentimenti umani” (Pensieri LXVIII), nel riconoscere l'animo umano e il suo inappagabile desiderio d'infinito, assai più grandi dell'universo stesso e dunque soggetti al patimento di mancanza e vuoto.

GIACOMO LEOPARDI, NOIA

La noia è il maggior segno di grandezza e nobiltà riscontrabile nella natura umana, dunque non è propria degli uomini “di nessun momento” né degli animali. Nello stesso anno Leopardi compone Il sabato del villaggio affrontando ancora una volta il tema della noia. Descritta infatti la trepidante attesa degli abitanti del villaggio per il giorno di festa, al verso 41 pone sotto un'altra luce la stessa attesa vissuta con la certezza della prossima delusione dell'indomani, terminata la festa.

“Diman tristezza e noia/recheran l'ore” tristezza, per il disinganno; noia, per gli inameni ozii della domenica. E, si potrebbe dire, tristezza della noia, nata dalla noia. Suggerisce nello Zibaldone (529): “non il dolor cupo e vivo sperimentato dai fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa”, ma la condizione di chi vi “cerca e vi aspetta il divertimento” e “non vi trova che noia” (Zib 4523), ossia qualcosa di peggio della delusione della speranza, ma il capovolgimento di quell'attesa, da cui i versi 41-42 “ed al travaglio usato/ ciascuno in suo pensier farà ritorno”.

Nel settembre 1833, con la composizione di A se stesso Leopardi, disilluso da un amore infelice, rifugge in espressioni di comando, in uno stile lapidario, di verità nude e squallide dette in un funebre e rotto asserire incalzato da pause e freddi silenzi. “Amaro e noia/ la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo” (vv 11-12): tolti gli inganni, fonte di tanti nobili affetti e pensieri del solo possibile bene, insomma, non rimane alla vita altro che il dolore, e, dove non è il dolore, la noia.

Il poeta lo aveva già dimostrato con un esempio, con quel suo modo socratico, nel dialogo del Tasso. “Altro mai nulla”, per mezzo dell'inversione sembra negare, senza speranza, per tre volte. E la parola “nulla” campeggia a metà verso tra “vita” e “mondo” come se fosse l'unica realtà ed “amaro” e “noia” sono l'unico senso di quel “fango” già trovato nella canzone Ad Angelo Mai (“questo secol di fango” v 179) ed in Petrarca che lo accostava a sua volta alla noia.

Nessuna cosa al mondo è degna di sospiri, tutto è fango, il mondo intero è fango.

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