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La Globalizzazione

Cos'è la globalizzazione
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La Globalizzazione è un processo di integrazione tra le economie della maggior parte dei paesi del mondo che si è sviluppato soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Con il termine globalizzazione ci si riferisce a un insieme di fenomeni, tra cui i più importanti sono: aumento del commercio internazionale; diffusione delle imprese multinazionali; finanziarizzazione dell’economia.

Il fenomeno della globalizzazione investe in modo sempre più accentuato il mondo attuale, trasformandolo in un gigantesco mercato, dove circolano ovunque le merci prodotte dalle industrie dei paesi più sviluppati e i mass media diffondono gli stessi modelli di comportamento e i medesimi valori.

Il mercato mondiale

Le materie prime vengono vendute e comprate sul mercato mondiale, così come vengono distribuiti in tutto il mondo i prodotti da esse ricavati. L’intero pianeta è oggi una sorta di enorme mercato, sia per quanto riguarda la circolazione delle merci che, una volta prodotte all’interno di un singolo Stato, possono essere esportate in tutto il Mondo, sia per quanto riguarda la divisione internazionale del lavoro, che consiste in una forma di specializzazione dell’attività produttiva nei vari paesi.

Lo scambio internazionale si basa proprio sul fatto che non tutti gli Stati hanno a disposizione le stesse risorse: ci sono paesi ricchi di minerali come gli USA, l’Australia e il Sudafrica, mentre altri ne devono importare per fornire materie prime alle loro industrie, come accade per il Giappone.

In generale i paesi sottosviluppati esportano materie prime a basso costo e importano i prodotti industriali, mentre i paesi industrializzati del nord del mondo comprano materie prime ed esportano le merci fabbricate nelle loro industrie: i guadagni sono assai maggiori per i paesi più ricchi che vendono beni a più alto valore aggiunto, cioè merci il cui prezzo di vendita è determinato, più che dal costo delle materie prime, dal lavoro qualificato che è stato impiegato per produrle.

Protezionismo e liberismo

Il commercio mondiale tra gli Stati può essere regolato da due opposti principi: il protezionismo e il libero scambio, o liberismo. Il protezionismo consiste in una serie di provvedimenti che lo Stato prende per limitare le importazioni di merci da altri paesi, allo scopo di proteggere la produzione interna dalla concorrenza straniera. Il libero scambio si realizza quando non esiste alcun ostacolo all’importazione ed esportazione di merci. Nonostante la maggior parte degli Stati sostenga a livello di principio il libero scambio e abbia sottoscritto accordi internazionali a favore della circolazione internazionale delle merci, in realtà ciascuno Stato mantiene provvedimenti protezionistici a favore delle proprie industrie.

Scambio uguale e diseguale

Se gli scambi avvengono tra paesi che hanno più o meno lo stesso livello di sviluppo, attraverso il libero scambio viene favorita la specializzazione internazionale e la crescita economica di tutti i paesi interessati. Ciò significa che ogni paese può dedicarsi a produrre quei beni per cui ha a disposizione materie prime, tecnologie e manodopera preparata.

Ad esempio, uno stato che gode di un buon clima, di terreni fertili e di una tradizione nel lavoro agricolo, può produrre soprattutto grano o altri cereali per il consumo interno e per l’esportazione, mentre può importare macchinari, utili sia per le lavorazioni industriali che per quelle agricole, da paesi industrializzati. Tuttavia se gli scambi avvengono tra paesi a diverso livello di sviluppo, sono i paesi più sviluppati a trarne il maggior vantaggio: essi esportano soprattutto prodotti industriali, nella cui produzione sono specializzati e di cui detengono le conoscenze tecnologiche, e importano materie prime e prodotti agricoli provenienti dai paesi meno sviluppati, i quali troveranno notevoli difficoltà a far nascere un’industria autonoma.

Le multinazionali

Accanto agli Stati, svolgono un ruolo di primo piano nell’economia mondiale le società multinazionali. Le multinazionali sono imprese che operano in aree ad alto sviluppo economico e nei settori avanzati dell’industria; hanno un giro d’affari di notevoli dimensioni e collocano le loro attività produttive in diversi paesi, dove esistono le condizioni economiche migliori.

La proprietà e la direzione appartengono alla società-madre, che viene detta “holding”, da cui dipendono imprese che possono operare nei campi più diversi: ad esempio, una multinazionale può disporre di aziende agricole, di industrie alimentari, catene di distribuzione commerciale; ma può anche può anche possedere attività in altri settori completamente diversi, come quello chimico o meccanico.

Le multinazionali si sono ingrandite a un punto tale che molte di esse hanno bilanci superiori a quelli degli stati dove operano, di cui possono influenzare la politica economica a proprio vantaggio.

Inoltre, approfittando dei diversi sistemi di legge vigenti nei paesi dove estendono le loro attività, riescono a sfuggire ai controlli fiscali, disponendo così di somme ingentissime, al di fuori di ogni controllo; altri vantaggi sono costituiti dall’utilizzo di manodopera a basso costo, dall’allargamento del mercato di vendita e così via.

Gli interessi delle multinazionali possono contrastare con quelli dello Stato dove operano e con quelli della comunità mondiale. Ciò accade, ad esempio, quando determinate attività produttive intaccano risorse naturali non rinnovabili, come le foreste, danneggiando l’ambiente e impoverendolo, a lungo andare, il paese ospitante.

Tra gli effetti collaterali che queste trasformazioni economiche producono c’è anche l’esportazione di un modello di vita proprio della società occidentale e quindi l’uniformarsi delle abitudini e della mentalità di vaste aree di popolazione, tramite la diffusione della Coca cola e della rete Mc Donald's.

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Globalizzazione ed economia

Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti erano l'unico paese in grado di fornire ai paesi europei e al Giappone, devastati dal conflitto, i beni e i servizi di consumo.

Il ruolo del dollaro USA nel dopoguerra

Si registrò quindi un forte aumento delle esportazioni di beni dagli Stati Uniti e, poiché questi beni venivano pagati in dollari USA, questa moneta divenne molto ricercata e il suo valore di mercato aumentò.

Nel 1944, nella conferenza di Bretton Woods, i paesi a economia di mercato scelsero un nuovo sistema di cambi, basato non più sull’oro, ma sul dollaro USA: il valore di ciascuna moneta nazionale fu fissato in relazione alla moneta statunitense e le riserve monetarie vennero accumulate in questa moneta.

Nella stessa conferenza vennero anche create due nuove istituzioni, il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS), detta anche Banca mondiale. Il sistema dei cambi di Bretton Woods entrò in crisi nel corso degli anni Sessanta e nel 1971 venne abbandonato a favore di un sistema a cambi parzialmente flessibili. Nel corso di tutti gli anni Settanta, anche a causa della crisi petrolifera, il dollaro si deprezzò nei confronti del marco, dello yen e del franco svizzero.

Finanziarizzazione dell'economia

Nel corso degli ultimi due decenni, le borse e gli altri mercati finanziari si sono diffusi in tutto il mondo grazie allo sviluppo delle tecnologie informatiche. Questi cambiamenti hanno favorito gli speculatori, investitori che acquistano o vendono ingenti quantità di titoli o di moneta esclusivamente per trarne un guadagno, cercando di anticipare i cambiamenti della domanda e dell’offerta.

Alcune banche e società d’investimento sono diventate così ricche da poter influenzare esse stesse l’andamento del mercato finanziario, che quindi dipende sempre meno dalle variazioni dell’economia reale, cioè dalla produzione e dagli investimenti: si parla al riguardo di finanziarizzazione dell’economia, un fenomeno che riguarda particolarmente i paesi a economia di mercato sviluppata, cioè i paesi del Nord America, dell’Europa occidentale e del Sudest asiatico.

Effetti della finanziarizzazione

In seguito all’azione degli investitori, i mercati finanziari e i cambi tra le diverse monete divengono estremamente volatili, cioè variabili in periodi anche molto brevi e senza possibilità di essere previsti. Come venne notato fin dal 1974 da James Tobin, la volatilità dei tassi di cambio è una forte limitazione all’autonomia delle politiche economiche nazionali.

I singoli paesi, per evitare che la speculazione colpisca la propria moneta e che gli investitori vendano in massa i titoli di stato, sono costretti a seguire una determinata politica nella fissazione del tasso d’interesse, che deve essere molto alto in modo da attirare gli investitori. Ciò può comportare delle conseguenze negative, poiché il pagamento del debito impegna una grossa parte del reddito nazionale a scapito delle politiche sociali e dell’occupazione.

Per limitare i danni che movimenti finanziari possono produrre sulle economie dei paesi più esposti alle speculazioni (e quindi soprattutto i paesi in via di sviluppo), James Tobin nel 1972 propose una tassa sui movimenti finanziari speculativi. Accolta senza entusiasmi negli anni Settanta, in un momento di grande euforia dei mercati, negli anni Novanta la Tobin Tax è stata riproposta e molti studiosi e organizzazioni internazionali, e qualche governo(ad esempio quello francese), ne stanno valutando l’applicabilità.

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