De rerum natura, Libro III; Lucrezio

Traduzione completa in versi del libro III di Lucrezio (199 pagine formato doc)

Appunto di tommy07
1 tu, che in mezzo a così grandi tenebre primo potesti levare una luce tanto chiara, illuminando le gioie della vita, io seguo te, o onore della gente greca, e nelle orme da te impresse pongo ora ferme le piante dei miei piedi, non tanto perché io voglia gareggiare con te, quanto perché anelo a imitarti per amore.
Come potrebbe infatti contendere la rondine coi cigni? O come potrebbero mai i capretti dalle tremule membra emulare nella corsa l'impeto di un forte cavallo? Tu padre sei, scopritore del vero; tu paterni precetti ci prodighi, e, come le api nei pascoli fioriti suggono per ogni dove, così noi nei tuoi scritti, glorioso, ci pasciamo di tutti gli aurei detti, aurei, sempre degnissimi di vita perpetua. Infatti, appena la tua dottrina comincia a svelare a gran voce la natura quale è sorta dalla tua mente divina, fuggon via i terrori dell'animo, le mura del mondo si disserrano, vedo le cose svolgersi attraverso tutto il vuoto.
Appaiono la potenza degli dèi e le sedi quiete, che né venti scuotono, né nuvole cospargono di piogge, né neve vìola, condensata da gelo acuto, candida cadendo; ?ma? un etere sempre senza nubi le ricopre, e ride di luce largamente diffusa. E tutto fornisce la natura, né alcuna cosa in alcun tempo intacca la pace dell'animo. Ma per contro in nessun luogo appaiono le regioni acherontee, né la terra impedisce che si discerna tutto quanto si svolge sotto i miei piedi, laggiù, attraverso il vuoto. Per queste cose mi prende allora un certo divino piacere e un brivido, perché così per la potenza della tua mente la natura, tanto manifestamente dischiudendosi, in ogni parte è stata rivelata. E poiché ho insegnato quali siano i principi di tutte le cose e quanto differenti per varietà di forme spontaneamente volteggino, stimolati da moto eterno, e in che modo da questi si possa produrre ogni cosa, dopo ciò mi sembra che nei miei versi debba essere ormai illustrata la natura dell'animo e dell'anima, e che si debba scacciar via a precipizio quel timore dell'Acheronte, che dal profondo sconvolge appieno la vita umana, tutto inondando del nero della morte, né lascia esistere alcun piacere limpido e puro. Sì, spesso gli uomini dichiarano che malattie e vita infame sono più temibili che il Tartaro, dimora della morte; dicono di sapere che la natura dell'animo è fatta di sangue, anche di vento, se a ciò per caso li spinge il capriccio, e di non avere affatto bisogno della nostra dottrina; ma di qui puoi intendere che tutto è ostentato per vanagloria piuttosto che espresso per convinzione della cosa stessa. Questi medesimi, cacciati dalla patria ed esiliati lontano dal cospetto degli uomini, disonorati da un'accusa vergognosa, afflitti da tutte le pene, in fin dei conti vivono, e, dovunque sono giunti nella loro miseria, offrono tuttavia sacrifici ai loro morti, e immolano nere vittime, e agli dèi Mani consacrano funebri onori, e negli acerbi frangenti con ansia molto più acuta rivolgono gli animi alla religione. Più conviene, quindi,